Dario Ballantini: "La mia pittura e i miei legami con Pisa"

L'artista racconta i suoi spettacoli e i suoi quadri

Cerreto Guidi: inaugurazione della mostra di Dario Ballantini (foto Germogli)

Cerreto Guidi: inaugurazione della mostra di Dario Ballantini (foto Germogli)

Pisa, 15 aprile 2019 - Dario Ballantini dalla pittura alla recitazione, con l’arte nel sangue. L’artista livornese, in Toscana con il suo spettacolo su Petrolini, si racconta. Ballantini, pittore, scultore, imitatore, un artista con la passione per la perfezione, ripercorre le origini familiari delle sue radici artistiche e parla degli spettacoli su Dalla e Petrolini adesso nei teatri.

Nelle arti figurative lei ha intrapreso una doppia strada con altrettante gavette, nella pittura e scultura. Mi racconta qualcosa di questi suoi percorsi artistici?

«La pittura è partita dall’infanzia. Dipingeva anche mio padre Sergio, anche se ha smesso quando io e mio fratello eravamo piccoli, e avevo uno zio pittore, Giacomo Ballantini, che poi tra l’altro ha vissuto a Pisa. Livorno è una città piena di pittori… ricordiamoci che ci sono nati Fattori e Modigliani. Io disegnavo bene fin da piccolo, poi mi sono iscritto al liceo artistico e ho avuto la fortuna di avere come un insegnante un pittore espressionista, Giancarlo Cocchia. Lui era autodidatta, la sua è una pittura sperimentale: un bel punto di riferimento per me, tanto è vero che la mia pittura in qualcosa assomiglia un po’ alla sua. Io sono andato subito verso l’espressionismo perché a me piace una pittura che esprima sentimenti, qualcosa di inventato e stravolto, non di descrittivo. E ho iniziato a fare subito mostre appena finito il liceo».

Prestissimo!

«Sì, la fortuna è stata quella. La gavetta è stata lunga ma perché è cominciata a 19 anni e ci ho messo tanto tempo anche perché Livorno è legata ai paesaggisti, ai post-macchiaioli ed io ero visto come un pittore strano e anche un po’ macabro. La mia pittura è esplosa poi quando sono andato a Milano. Con il successo in tv del mio personaggio di Valentino, quando i giornalisti si sono incuriositi, è venuta fuori anche l’altra attività e subito le richieste di mostre. Ci fu quella grande di Verona, così ripartii dopo dieci anni: in Toscana negli anni ’90 mi ero fermato. Poi ce ne è stata una a Londra, il murales a Miami e l’attività continua ancora».

La scultura invece?

«Quella me l’ha stimolata Massimo Licinio, il mio agente. Erano anni che mi diceva di riprenderla (l’avevo fatta solo a scuola) per dare corpo alle mie figure. Così ho fatto per una mostra collegata a Bonito Oliva - anche lui mi aveva sollecitato - ed è venuta bene, ma sento che ancora la scultura non mi convince del tutto. È un’arte lenta rispetto alla pittura, che è immediata. Mi esprimo in maniera diversa, essa è più contemplativa, bisogna star lì a guardare, sistemare, aggiustare, invece il quadro lo inizi e lo finisci, almeno per come lo concepisco io».

Ho sentito di un ricordo su suo nonno che spesso parlava a voi nipoti del rimpianto di non essere partito con la compagnia di Macario…

«Sì, dì lì a poco Macario sarebbe diventato protagonista della rivista. Mio nonno materno, Bruno Giuntini, aveva rinunciato per non lasciare il “paesello”. E poi c’è anche mio zio, che è stato un tenore mancato. A Livorno c’è la tradizione di Mascagni, quindi la lirica è molto sentita. Lui aveva una voce da tenore già a 12, 13 anni e lo facevano esibire ovunque, anche nei bar, troppo spesso… una terribile imprudenza: la sua voce sforzandosi troppo è diventata roca e così è rimasta. Lui girava con in tasca l’articolo del giornale che parlava di lui, Gino Giuntini, giovane tenore. Ha avuto questo rimpianto tutta la vita. Me l’hanno attaccata entrambi questa voglia di riscatto!».

Come si sente ad aver realizzato i loro sogni oltre ai propri?

«Ehh… sento molto il peso di questa responsabilità».

Di recente ha debuttato con “Ballantini e Petrolini” a Roma, poi la data a Certaldo il 3 aprile 2019. Come è andata?

«Molto bene! La famiglia Petrolini è venuta ad assistere e a maggio 2019 mi daranno il “Premio Petrolini”, assegnato fino ad adesso soltanto a romani, Montesano, Verdone... Quindi per me è un grande onore».

L’accoglienza del pubblico e le sue emozioni?

«Molto emozionante per la responsabilità di fare un mostro sacro romano davanti a un pubblico non neofita sull’argomento, ma il risultato è stato sorprendente. Ho avuto modo di annullarmi per bene, di trasfigurarmi in lui come volevo e siccome in quel teatro, l’Off/Off Theatre, c’è il buio assoluto, son venuti bene gli effetti: dal niente diventare completamente lui, è stato molto bello. E sono venuti a vedermi anche diversi personaggi, il vignettista Vauro, Panariello, Amedeo Minghi, il mio amico Alvaro Vitali, con cui ho fatto un duetto in passato, Andrea Roncato, Bertinotti… Abbiamo fatto filmare tutto e possiamo promuoverlo ancora meglio. Vediamo se i teatri lo accoglieranno».

Contemporaneamente a questo spettacolo ha portato in giro anche “Da Balla a Dalla”…

«Ho fatto una quarantina di date e sono andate benissimo, ma ancora per terminare l’Italia, ne mancano…».

So che il suo legame con il cantautore ha radici nella sua infanzia. Pensa a lui, intendo al suo incontro con lui, quando lo interpreta?

«Certo, il lavoro è tutto sul racconto dei nostri incontri. E c’è sempre un momento in cui devo contenere l’emozione perché non diventi commozione».

Francesca Padula