L'era della indignazione permanente. Chi tumuliamo oggi?

Il saggio di Guia Soncini sulla suscettibilità (Marsilio)

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Firenze, 28 aprile 2021 - Frank Furedi, nel suo “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana” (Feltrinelli), avvertiva che nella società post-ideologica, priva di sovrastrutture, le persone hanno perso così tanto i punti di riferimento da doversi inventare nuove identità con cui leggere se stessi e la società: quelle di (presunti) malati. Guia Soncini nel suo “L’era della suscettibilità”, pubblicato da Marsilio, dice che la nuova identità - quella al tempo dei social - è lo stato di perenne indignazione. Ogni giorno c’è sempre una battaglia da combattere seduti sulla tazza del cesso con il cellulare in mano e l’account Twitter caricato a pallettoni. Ne sa qualcosa Gipi che di recente è stato tumulato per una striscia satirica fondata su un paradosso, trattato come uno che inneggia alla violenza contro le donne (no, non è così, andate a vederla e fatevi un’idea), con il risultato che su Instagram hanno aggiunto un disclaimer per “contenuti sensibili” che la oscura parzialmente.

La colpa non è naturalmente dei social, che si limitano a fare da anabolizzanti dell’indignazione, e pure della scemenza; l’idiozia è nativa, prescinde dalla tecnologia. In sostanza, eravamo già scemi prima di Jack Dorsey. Non è Twitter ad aver creato i linciaggi, insomma, c’erano già, sono stati solo amplificati e resi istantanei.

I social sono una gigantesca buca delle lettere, un tempo c’erano quelle dei giornali - che quantomeno vagliavano cosa pubblicare, non fosse altro per motivi di spazio; twittare invece è gratis e lo spazio dell’Internet è potenzialmente infinito - mentre oggi i giornali stessi danno spazio al “popolo del web” per ogni sciocchezza. Hai visto mai, chiosa Soncini, che si perdano la boiata del giorno. “È bufera” è il massimo del luogocomunismo, il titolo buono per qualsiasi fregnaccia con cui sbarcare la giornata. Non potendo avvalersi di sovrastrutture ideologiche, che avevano il pregio di giustificare qualsiasi stato di alterazione soggettiva (chessò, la lotta di classe produce incazzature permanenti), oggi ci possiamo sentire fragili e lamentarci tutto il giorno di chi non comprende, non capisce, ci scherza su, ci fa persino satira. E, attenzione, è persino legittimo non accettare scherzi, provocazioni, satira, su argomenti considerati delicati, ma da qui a trasformare tutto in scandalo ce ne corre.

Negli Stati Uniti, dove la suscettibilità è diventata fonte del diritto, bisogna stare attenti a non esagerare troppo e a non sbagliare tweet o editoriale, perché poi potrebbe arrivare la colata di indignazione di turno a farti perdere il lavoro, i contratti, la reputazione. “Quante cose ci stiamo perdendo? Quanti romanzi, quante canzoni, quanti film vengono lasciati tra le idee incompiute perché l’autore poi non vuole passare le giornate a chiarire equivoci?”, si domanda Soncini. Ecco, appunto.

Ne sapeva qualcosa anche Philip Roth, scrittore sovente accusato di misoginia (accusa con cui Roth invero si baloccava), di cui viene chiesto il pubblico discredito per i suoi libri, che però sono capolavori. Si può essere eventualmente stronzi ma scrivere cose meravigliose (e meravigliose ancorché considerate turpi) senza per questo smettere di essere pubblicati? Perché a rimetterci deve essere sempre chi legge o chi guarda? “Ovviamente Roth lo faceva apposta. Era il migliore di noi che amiamo la rissa… Scrisse, in una lettera a John Updike, che la misoginia ‘è la pecca della mia umanità di cui hanno preso a occuparsi i critici; ha rapidamente preso il posto dell’antisemitismo di cui si preoccupavano prima’”, dice Soncini. Oggi lo scrittore Blake Bailey, da poco sbarcato in libreria con la monumentale biografia di Roth, è accusato di violenze sessuali da alcune sue ex studentesse quando insegnava in un college di New Orleans negli anni Novanta e la casa editrice W.W. Norton, che ne ha stampate 50 mila copie, ha ritirato il volume di quasi 900 pagine. Gli editori pensano davvero che siamo tutti così scemi da non riuscire a separare il lavoro di una persona dalle sue eventuali responsabilità personali?

Una società del genere prepara giovani inadatti al dialogo e al confronto delle idee perché troppo occupati a mettere le etichette, i like o i dislike, senza riuscire più ad argomentare perché una cosa ci piace oppure no.