{{IMG_SX}}Firenze, 18 gennaio 2009 - Giovani, giovanissimi, poco più che ragazzi. Pare strano, a leggere i toni paludati e colti che usavano scrivendo, ma La Nazione degli esordi era composta in gran parte da ventenni. Si pensi che il primo fondo, quello del 14 luglio 1859, fu scritto da Alessandro d’Ancona a 24 anni, e poco dopo, allo stesso d’Ancona, fu offerta la direzione del giornale. Carducci prese a collaborare - ed era già conosciuto in Italia - quando ne aveva 26. Martini, Capuana, lo stesso Collodi erano figure emergenti che gli articoli sul foglio di Ricasoli resero note ed apprezzate. Ma nessuno poteva competere, in quanto ad età con Edmondo De Amicis, che prese a collaborare al quotidiano fiorentino nel 1868, all’età di 22 anni, e già una discreta carriera alle spalle.
E infatti, il futuro autore di Cuore era un militare ligure, arrivato dalle nostre parti nei giorni di Firenze capitale. Erano i giorni, anche, della ben nota relazione del Manzoni che indicava il fiorentino come lingua comune agli italiani. Ma La Nazione, in queste cose mai campanilista, anzi, forse un po’ snob, guardava all’ipotesi con estrema cautela, se non forse con dispetto. Sosteneva, infatti, che il fiorentino parlato era ben altra cosa, e lo dimostrò mandando i suoi cronisti a raccogliere frasi, dette e scritte dalla gente comune, a cominciare dalle insegne, dimostrando con ciò che Firenze aveva mille pregi, quello dell’ironia soprattutto, ma in quanto a parlare bene lasciava a desiderare. Bene o male l’Italia di quei giorni aveva 12 milioni di analfabeti, e i maestri di scuola - La Nazione fece un’inchiesta sulla loro preparazione - forse erano "i più analfabeti di tutti".
E dunque, il giornale fiorentino di tutto soffriva fuorché di fiorentinismo. Andava cercando persone che sapessero di cosa scrivevano, e lo facessero in modo chiaro e gradevole. Ecco perché i suoi collaboratori arrivano un po’ da tutta Italia. A cominciare appunto dal De Amicis, che a Firenze venne come direttore dell’organo del ministero della guerra L’Italia militare. E qui pubblicava i suoi “bozzetti”, con buona prosa ma nello stesso tempo con toni melodrammatici Nei suoi racconti la protagonista era sempre “la pena”. Ovvero la sofferenza, il patire, l’abnegazione, le lacrime a fior di pelle. Eppure piacevano. Inoltre, frequentando il mitico salotto di Emilia Peruzzi in Borgo dei Greci, aveva anche ottenuto buoni uffici nell’ambiente de La Nazione. Fu così che prese a collaborare, scrisse le cronache del ‘70 sulla breccia di Porta Pia - le scrisse su una cartolina postale, l’affrancò, le Regie Poste le recapitarono al destinatario dopo sette giorni - poi divenne un giornalista in organico e lasciò l’esercito. Subito la grande occasione. Celestino Bianchi, il direttore che negli anni Settanta fu chiamato a rilanciare il giornale, lo spedì in Spagna, per il fatto che reggere il trono da quelle parti era Amedeo, un Savoia.
Ma invece di limitarsi a scrivere di “note regali” De Amicis si mescolò alla gente, e scrisse gustosi articoli sulle corride, sui ventagli, sulle curiosità spagnole che mandarono in visibilio i lettori. Il successo fu tale che l’esperienza fu ripetuta in Marocco e in Olanda. E dunque, per un periodo De Amicis abbandonò i toni da melodramma e sembrò perfino divertirsi scrivendo, e divertire. Poi, quindici anni dopo, con la pubblicazione di Cuore tornò alla sua antica vocazione moraleggiante. Pazienza. Se non altro La Nazione, il primo giornale a spedire un inviato a giro per il mondo fidando sulla sua capacità di narratore, aveva dimostrato che le sue doti potevano essere anche altre. E che De Amicis, incredibile a dirsi, era perfino capace di un sorriso.
© Riproduzione riservata