
"Un tempo veniva definito un lubrificatore sociale in grado di facilitare le conoscenze, dare la parola ai timidi e il coraggio ai pavidi, accompagnare gli affari. Oggi è senz’altro più appropriato riferirsi all’alcol come un potente (forse il più potente) anestetico sociale in commercio, ma in un senso forse meno pittoresco del già noto bere per dimenticare".
La montecatinese Silvia Calzolari (nella foto), psicologa clinica e forense, ha seguito molti ragazzi difficili e conosce bene il fenomeno della mala movida. "Si atteggiano a uomini e donne vissuti – prosegue – ma la maggior parte dei componenti degli eserciti di giovani fronte ai bar del centro il sabato sera ha circa 15 anni e il bicchiere in mano, un’immagine che sembra ritrarli in una pubblicità. Non importa con chi o dove, ma il loro imperativo è non tornare a casa con la sensazione di non essersi divertiti, di avere perso un’occasione o di non avere nulla da raccontare, come se la vita finisse domani. Non sanno che il divertimento non è un obbligo e che anzi, quando te lo imponi, è il momento che non lo provi. Non sanno che la gioia è solo una delle tante emozioni di cui siamo tutti dotati e che ha dei tempi fisiologici, come anche la tristezza, la paura, la rabbia. Non sanno che nessuna emozione o stato d’animo può essere indotto con la forza se non per una durata che sarebbe artificiale e, quando non lo comprendi, non ci sai stare dentro".
Alla fine, secondo l’analisi di Calzolari, scatta il momento in cui parte l’abuso d’alcol. "Così – conferma la psicologa – succede che quella strana cosa in profondità alla bocca dello stomaco che somiglia vagamente alla tristezza o alla noia proprio non la riesci a tollerare, ti sembra una sconfitta rispetto al bagliore del resto del mondo. Anziché farti una domanda, è molto più facile scoprire che con soli 5 euro si può comodamente anestetizzarla e anzi puoi sentirti chi vuoi almeno fino a domattina. Il dato più interessante è che nessuno degli abituali del binge drinking, l’abbuffata alcolica a stomaco vuoto, è consapevole dei meccanismi psicologici di cui è schiavo, nella convinzione che bere sia una propria scelta libera, giustificata da uno dei tipici alibi: lo fanno tutti, mi sento figo e posto sui social, glielo faccio vedere io a quello o a quella, lo faccio in spregio ai miei genitori e alle regole, un bicchierino non ha mai fatto male a nessuno e figurati se ho bisogno di questa roba per divertirmi! E’ proprio quest’ultimo il punto dolente della questione, perché il non riconoscere di essere da una parte narcotizzati dal cellulare e dall’altra dipendenti da qualcosa che non è dentro di noi conferisce una falsa idea di autonomia e realizzazione, come anche di benessere. Pensiamo al senso di sconfitta di ragazzini riversi a vomitare che credono di essere in Pulp Fiction e di chi continua a farglielo credere. Di fronte a questi fenomeni avvilenti è necessario ripartire dall’alfabetizzazione emotiva in famiglia e a scuola, insegnando a divenire liberi attraverso la conoscenza e la gestione corretta delle proprie emozioni".
Daniele Bernardini