Massa, 25 agosto 2012 - «Sono bastati trenta minuti — scriveva Aldo Valleroni su La Nazione — per cancellare una spiaggia, per gettare la desolazione in una zona, per fermare tutta l’industria turistica di un litorale ampio, accogliente, fino a ieri meraviglioso per la bellezza, di Cinquale, Ronchi e Poveromo».

Era il 28 agosto 1977, le ore 21 passate da poco. Dopo una giornata di pioggia e un’ingannevole schiarita, sulla costa di Massa e Montignoso si abbattè quello che, in atti pubblici e nelle cronache, fu detto nubifragio, ciclone, tromba d’aria, uragano e, non ultimo, tornado. Sostantivo, questo, che s’impose divenendo, nella memoria collettiva, il tornado. In quei minuti di tregenda in cui boati e lampi accompagnarono la furia del vento, sulla piana massese si scagliarono almeno tre colonne di turbini. La rete stradale, le linee elettriche e telefoniche e la rete idrica e del gas, danneggiate da alberi caduti, s’interruppero isolando 12mila persone.

Le vie divenute torrenti intrappolarono le auto con cui gente terrorizzata cercava scampo. 380 ettari di pineta mediterranea furono divelti, piante si abbatterono su case, alberghi ed edifici pubblici, centinaia i tetti scoperchiati. Gli stabilimenti balneari — meno numerosi di oggi: l’allora profonda spiaggia del levante apuano era per lo più naturale — furono distrutti o danneggiati. Sant’Ermete protesse Forte dei Marmi mentre a ponente del Versilia (con colpi di coda a Vittoria Apuana) cabine, barche, patìni e aerei in sosta a Cinquale volavano via, schiantandosi contro e talvolta oltre le cancellate delle ville e del Club Oliviero. Nell’entroterra caddero vigneti, olivi, piante da frutto, serre. Tra la paura e il caos, un conforto: feriti non gravi, nessuna vittima. Un miracolo.
 

Gli effetti del “fortunale di violenza inusitata” si riassunsero in una stima di danni per decine di miliardi di lire al patrimonio pubblico, a beni privati e ad attività turistiche e agricole. I danni maggiori li ebbe il patrimonio boschivo, quelle pinete volute dagli Estensi per liberare la costa dalle malsane paludi e proteggere dai venti le coltivazioni dell’entroterra: danni tali — scrisse l’Ispettorato Forestale — “da aver mutato, pressoché integralmente, l’aspetto ecologico e forse anche climatico della zona”.

«Nous avons un arbre dans notre chambre!»: nella disgrazia, la frase pronunciata al telefono la notte del tornado dall’allora ministro delle poste belga, Lèon Defosset, in villeggiatura al Tropicana di Poveromo, fu primo passo di una rapida riscossa. Defosset informava in diretta l’amico Umberto Stefani, primo consigliere del segretariato generale per i rapporti tra la Cee e gli Stati membri, appena rientrato a Bruxelles: era partito da Ronchi, dove aveva la casa delle vacanze, alle 12 di quel 28 agosto. Stefani si rese conto che la Cee non aveva capitolo di spesa per le calamità naturali; col vicepresidente della Commissione europea, il fiorentino Lorenzo Natali, rese il nubifragio apuano caso pilota e in una settimana a Massa arrivarono aiuti europei per 1,5 miliardi.
 

A 35 ANNI dall’evento, i ricordi e le cronache, supportati da documenti ufficiali, sono diventati storia grazie al libro “Tornado ’77”, appena pubblicato, frutto della certosina e intelligente ricerca dell’avvocato massese Dino Del Giudice che quei fatti visse con occhi di quattordicenne. Il libro, dal quale sono tratte informazioni e foto di questo Amarcord, viene presentato in anteprima oggi alle 18.30 al bagno Bemi di Ronchi. Ne emerge la storia di un drammatico spartiacque che ha segnato un “prima” e un “dopo”: la fine di un mondo. Con le pinete, le dune di sabbia e la vegetazione spontanea, il tornado (o una certa ricostruzione) si è portato via un metodo di parsimonioso utilizzo della riviera apuana. Nel 1977 la Natura ha cancellato ciò che la Natura stessa, unita all’azione dell’uomo, aveva nei secoli plasmato. E, nonostante i buoni propositi di allora, poco o nulla è tornato come prima.

Anna Pucci