Coronavirus. "Noi proviamo a sconfiggerlo con il plasma"

Intervista al dottor Mirko Lombardi, coordinatore del team che sta avviando la sperimentazione anti-virus nel nostro ospedale

Il gruppo 'Covid'

Il gruppo 'Covid'

Massa, 10 maggio 2020 -  È partito in questi giorni uno studio specialistico all’ospedale Noa di Massa che vuole applicare il plasma immune, quello dei guariti, alla cura dei pazienti contagiati da Sars-Cov2 . Ne abbiamo parlato con il dottor Mirko Lombardi, coordinatore organizzativo del comitato tecnico-scientifico del Noa, istituito formalmente dal direttore di presidio, Giuliano Biselli (su proposta dello stesso Lombardi).  

Dottore, quali le differenze e quali gli aspetti in comune con altri studi in Italia? "La caratteristica è che si tratta di uno studio clinico che è stato progettato e disegnato secondo i criteri codificati dalla letteratura internazionale e quindi con una serie di definizioni, criteri di arruolamento, obiettivi, volti a dimostrare la efficacia e la sicurezza del plasma immune somministrato a pazienti con polmonite Covid19 e che è stato valutato da un comitato etico (di Area Vasta Nord Ovest) e ritenuto idoneo alla effettuazione. E’ stato inoltre sostenuto dalla Direzione Aziendale che ringraziamo. Quindi ha una base ed una valenza scientifica approvate da un organismo istituzionale deputato allo scopo. E’ simile a studi che hanno seguito il percorso sopra indicato sia italiani che stranieri. Il plasma può essere impiegato in tre fasi del contatto con il virus: profilattico, nella polmonite ospedalizzata non in rianimazione, nella insufficienza respiratoria in rianimazione. Noi abbiamo scelto la seconda fase perché ci sono evidenze, come per altri farmaci, che quanto prima viene dato dall’inizio dei sintomi nella malattia così detta moderata/severa (quella dei pazienti che ricoveri in ospedale) più è efficace".  

Non siete i primi a tentare l’uso del plasma contro Covid19 ma sicuramente ci sono delle caratteristiche peculiari in questo studio. "In Italia il centro pilota promotore è stato il policlinico San Matteo di Pavia con il dottor Perotti primo investigatore con il quale mi relazionai alla fine di marzo, primi di aprile e che cortesemente mi inviò il loro protocollo e ci invitò a partecipare allo studio. Ne discutemmo nel comitato tecnico-scientifico del nostro ospedale: il gruppo di Pavia lo proponeva nei pazienti in rianimazione mentre nelle nostra discussione era già emerso da qualche tempo, anche grazie alle osservazioni di altri colleghi ed in particolare della dott.ssa Viviani, responsabile della nostra rianimazione che osservava quanto impegnati fossero i pazienti che arrivavano da lei in rianimazione, che bisognasse agire prima nel decorso di questa malattia. Nacque allora la proposta di usarlo nei pazienti ospedalizzati non in rianimazione, come stava anche emergendo nella letteratura internazionale e ideammo l’attuale protocollo. Credo i primi nella proposta in Toscana per quanto riguarda la fase della malattia in cui viene utilizzato il plasma e la caratteristica metodologica di uno studio di fase 2A (mi si perdoni il tecnicismo necessario)".  

Cura con il plasma e vaccino: sono due procedure complementari o si escludono nella lotta al virus? "Nel plasma del paziente guarito dal Covid ci sono gli anticorpi contro il virus, almeno nei primi due mesi perché quanto dureranno in circolo non si sa. Il vaccino è una cosa diversa. Il plasma conferisce una immunità passiva. Il vaccino risolverà il problema inducendo una immunità attiva. Prima del vaccino, oltre al plasma, stanno lavorando ai sieri iperimmuni costruiti in laboratorio sul principio degli anticopri antivirus del plasma".  

Tutti i guariti sono potenziali donatori? "Innanzitutto ci vuole una donazione volontaria di plasma. Se non c’è il plasma manca il carburante al motore dello studio. Quindi, per favore, chi ha avuto il Covid19, è guarito, ha meno di 70 anni e sta bene, doni il plasma. Il plasma viene prelevato al Centro Trasfusionale da personale esperto che segue la persona durante il prelievo che dura meno di un’ora: al donatore viene prelevato solo il plasma, i suoi globuli rossi gli sono reinfusi. Non tutti i guariti sono potenziali donatori: devono avere dai 18 ai 65 anni. Ma la cosa più importante è che il potenziale donatore abbia nel sangue gli anticorpi al virus. Questo viene appurato con il dosaggio sierologico che viene eseguito dal nostro laboratorio analisi. Il test diagnostico in uso CE-IVD valuta la presenza di anticorpi IgG e IgM anticovid19".  

Sarà esteso anche ad altri ospedali per avere una platea più ampia? "Lo studio parte come monocentrico. Quindi solo al Noa. Se la direzione dell’Asl volesse allargarlo anche agli altri ospedali territoriali ne saremmo felicissimi".  

Se il plasma dovesse funzionare, potremmo abbassare la guardia? "Se funzionerà, saremo tutti più tranquilli ma non è la soluzione. Sarà una buona terapia ponte in attesa del vaccino, la soluzione biologica all’attacco di un patogeno. Fino a quel momento la guardia non va abbassata. L’uso del plasma immune va accolto con molta prudenza nonostante i facili od eccessivi entusiasmi che si leggono sui social e sulla stampa. Perché? Gli studi confermativi sono pochi e con pochi pazienti. Talora i pazienti assumono anche altri farmaci per cui va definito il contributo delle diverse terapie. Non si conosce ancora bene quanti sono gli anticorpi protettivi e quanto durano in circolazione nel donatore. Non si conosce ancora se l’infusione di anticorpi possa favorire nel ricevente una patologia immunomediata".

© RIPRODUZIONE RISERVATA