Chissà quanti testi ancora avrebbe scritto, quante risate a denti stretti e – perché no – anche sonore risate, ci avrebbe fatto fare grazie a quel suo inconfondibile stile e alla sua capacità di scrittura. Oggi avrebbe avuto 86 anni e di sicuro avrebbe collezionato un notevole numero di premi e riconoscimenti. Se n’è andato troppo presto invece, a 56 anni, il 2 febbraio 1993: ma a distanza di 30 anni il suo ricordo è integro e attuale. Cesare Viviani e il vernacolo lucchese vivono ancora grazie ai testi e alle poesie che ci ha lasciato. Oggi, in occasione del trentennale dalla morte, vogliamo dipingere un ritratto di Cesare come padre e come uomo, e non come amante del vernacolo. E lo facciamo grazie ai figli Cristiana, 60 anni, insegnante in pensione e Daniele, 55 anni, impiegato amministrativo. Insieme a loro la mamma, Lia, 85 anni. Com’era Cesare in casa con la famiglia, con i parenti? "Innanzitutto grazie dell’opportunità che La Nazione ci dà di parlare di nostro padre perché parlare di nostro padre significa raccontare del nostro babbo. Noi in casa lo chiamavamo così e lui ci teneva tantissimo a essere chiamato babbo e non papà. Com’era in casa e famiglia? Era un babbo presente, molto coinvolgente per le cose che faceva lui e voleva essere coinvolto nelle cose che facevamo noi figli. Era un babbo di cui non si poteva fare a meno. A 30 anni dalla sua morte quella poltrona vuota in salotto è ancora un’assenza pesante da sopportare. Certo, nella vita facciamo abitudine a tutto, ma quella poltrona vuota sinceramente pesa e pesa soprattutto in questi giorni. Si interessava di tutti e di tutto. Voleva sapere dei nostri interessi, della scuola, con chi uscivamo, ma lo faceva sempre con garbo, senza mai essere entrante e ossessivo. Chiacchierava con tutti, ci rendeva partecipi della sua vita e quando tornava da lavorare dal Comune ci raccontava di tutto quello che gli era successo; non era mai un racconto pesante perché lo intervallava sempre con qualche leggerezza, con qualche battuta". Quando si appassionò al vernacolo lucchese? "Da ragazzino, mosso dall’amore per la nostra città e il nostro territorio lucchese. Per lui il vernacolo era un contenuto dei modi di dire, delle inflessioni dialettali, delle parole, ma anche il veicolo per arrivare alla tradizione della nostra terra, con l’intento di mantenerle queste tradizioni, magari rinnovate nel tempo, magari viste in una chiave moderna e nuova, ma fondate sempre queste tradizioni sulle radici di un tempo. Iniziò a scrivere da ragazzino e fini tutto in un cassetto che da adulto tirò fuori partecipando quasi per gioco ad un concorso di poesia a Coreglia con “La buccina del limone ner ponce“. Vinse, e da lì iniziò la collaborazione con Maria Pacini Fazzi Editore, rispolverò quelle vecchie poesie e sonetti che aveva in quel cassetto e ne scrisse altre: uscì il suo primo libro “Robba della mi’ tera“ a cui seguì “Paesi de la mi’ tera“ con cui sottolineava questo amore per Lucca. Poi scriveva testi per il teatro: tutti i testi teatrali li scriveva su quella poltrona in tinello nel pomeriggio. Era piuttosto veloce a scrivere e molto maniacale nella correzione di bozze. Ricordiamo tante serate passate sul tavolo di cucina a correggere le bozze a mano. Era molto attento alla doppia, all’accento (anche io dice Cristiana ero “pisigna“ usando un termine del vernacolo lucchese) a che tutto fosse riportato in modo esatto".  In casa qual era la frase in vernacolo lucchese che più diceva? "“Ir troppo stroppia“ che fu anche il titolo della sua prima commedia". Raccontatemi qualche aneddoto di vostro padre? "Sono tanti. Al concorso a Coreglia eravamo tutti. E mentre si cenava disse: “Se vinco, vince tutta la famiglia“. Questo per dire quanto lui ci teneva a questo senso di familiarità convidisa". Raccontateci qualcosa di divertente? "Quando eravamo piccoli e andavamo in giro la domenica avevamo sempre un radiolina per ascoltare il calcio minuto per minuto e babbo non voleva che facessimo nessun gesto quando la Juventus segnava o prendeva gol perché voleva aspettare le 19 quando la Rai dava un tempo della partita del campionato di serie A". Quali erano le passioni di vostro padre? "Amava tantissimo la campagna, il vigneto che curava come poteva, salute permettendo, le piante, le poesie, le passeggiate e la compagnia di amici". E cosa non sopportava invece? "Non abbiamo memoria di qualche cosa che non sopportasse. Aveva una grande dote". Quale? "Quella di trovare sempre qualcosa di buono in tutto. Una grande capacità di mediazione, di fronte anche a delle cose che eventualmente potevano sembrare sgradite, trovava sempre qualcosa di buono. E questo credo che sia l’insegnamento che ci portiamo dentro (si commuovono, ndr) e che vorremmo trasmettere ai figli. Pensiamo sia questo che ci ha lasciato babbo". Cesare ha scritto molto anche per La Nazione. Vi piacerebbe che proprio La Nazione si facesse promotrice di un’iniziativa in ricordo di vostro padre? "Sì, quella con La Nazione per lui è stata una grande collaborazione negli anni ’80 e ’90". Cosa vi piacerebbe fosse organizzato per i 30 anni dalla morte? "Pensare a un coinvolgimento de La Nazione magari con i giovani per ricordare l’attaccamento alle tradizioni lucchesi, al vernacolo e questo di conseguenza veicolato dal ricordo di mio padre sarebbe davvero molto interessante". Un’ultima curiosità: è vero che ci sono commedie di Cesare ancora inedite? "Dei canovacci... niente di strutturato". Cristiano Consorti

Cronaca

Chissà quanti testi ancora avrebbe scritto, quante risate a denti stretti e – perché no – anche sonore risate, ci avrebbe fatto fare grazie a quel suo inconfondibile stile e alla sua capacità di scrittura. Oggi avrebbe avuto 86 anni e di sicuro avrebbe collezionato un notevole numero di premi e riconoscimenti. Se n’è andato troppo presto invece, a 56 anni, il 2 febbraio 1993: ma a distanza di 30 anni il suo ricordo è integro e attuale. Cesare Viviani e il vernacolo lucchese vivono ancora grazie ai testi e alle poesie che ci ha lasciato.
Oggi, in occasione del trentennale dalla morte, vogliamo dipingere un ritratto di Cesare come padre e come uomo, e non come amante del vernacolo. E lo facciamo grazie ai figli Cristiana, 60 anni, insegnante in pensione e Daniele, 55 anni, impiegato amministrativo. Insieme a loro la mamma, Lia, 85 anni.
Com’era Cesare in casa con la famiglia, con i parenti?
"Innanzitutto grazie dell’opportunità che La Nazione ci dà di parlare di nostro padre perché parlare di nostro padre significa raccontare del nostro babbo. Noi in casa lo chiamavamo così e lui ci teneva tantissimo a essere chiamato babbo e non papà. Com’era in casa e famiglia? Era un babbo presente, molto coinvolgente per le cose che faceva lui e voleva essere coinvolto nelle cose che facevamo noi figli. Era un babbo di cui non si poteva fare a meno. A 30 anni dalla sua morte quella poltrona vuota in salotto è ancora un’assenza pesante da sopportare. Certo, nella vita facciamo abitudine a tutto, ma quella poltrona vuota sinceramente pesa e pesa soprattutto in questi giorni. Si interessava di tutti e di tutto. Voleva sapere dei nostri interessi, della scuola, con chi uscivamo, ma lo faceva sempre con garbo, senza mai essere entrante e ossessivo. Chiacchierava con tutti, ci rendeva partecipi della sua vita e quando tornava da lavorare dal Comune ci raccontava di tutto quello che gli era successo; non era mai un racconto pesante perché lo intervallava sempre con qualche leggerezza, con qualche battuta".
Quando si appassionò al vernacolo lucchese?
"Da ragazzino, mosso dall’amore per la nostra città e il nostro territorio lucchese. Per lui il vernacolo era un contenuto dei modi di dire, delle inflessioni dialettali, delle parole, ma anche il veicolo per arrivare alla tradizione della nostra terra, con l’intento di mantenerle queste tradizioni, magari rinnovate nel tempo, magari viste in una chiave moderna e nuova, ma fondate sempre queste tradizioni sulle radici di un tempo. Iniziò a scrivere da ragazzino e fini tutto in un cassetto che da adulto tirò fuori partecipando quasi per gioco ad un concorso di poesia a Coreglia con “La buccina del limone ner ponce“. Vinse, e da lì iniziò la collaborazione con Maria Pacini Fazzi Editore, rispolverò quelle vecchie poesie e sonetti che aveva in quel cassetto e ne scrisse altre: uscì il suo primo libro “Robba della mi’ tera“ a cui seguì “Paesi de la mi’ tera“ con cui sottolineava questo amore per Lucca. Poi scriveva testi per il teatro: tutti i testi teatrali li scriveva su quella poltrona in tinello nel pomeriggio. Era piuttosto veloce a scrivere e molto maniacale nella correzione di bozze. Ricordiamo tante serate passate sul tavolo di cucina a correggere le bozze a mano. Era molto attento alla doppia, all’accento (anche io dice Cristiana ero “pisigna“ usando un termine del vernacolo lucchese) a che tutto fosse riportato in modo esatto". 
In casa qual era la frase in vernacolo lucchese che più diceva?
"“Ir troppo stroppia“ che fu anche il titolo della sua prima commedia".
Raccontatemi qualche aneddoto di vostro padre?
"Sono tanti. Al concorso a Coreglia eravamo tutti. E mentre si cenava disse: “Se vinco, vince tutta la famiglia“. Questo per dire quanto lui ci teneva a questo senso di familiarità convidisa".
Raccontateci qualcosa di divertente?
"Quando eravamo piccoli e andavamo in giro la domenica avevamo sempre un radiolina per ascoltare il calcio minuto per minuto e babbo non voleva che facessimo nessun gesto quando la Juventus segnava o prendeva gol perché voleva aspettare le 19 quando la Rai dava un tempo della partita del campionato di serie A".
Quali erano le passioni di vostro padre?
"Amava tantissimo la campagna, il vigneto che curava come poteva, salute permettendo, le piante, le poesie, le passeggiate e la compagnia di amici".
E cosa non sopportava invece?
"Non abbiamo memoria di qualche cosa che non sopportasse. Aveva una grande dote".
Quale?
"Quella di trovare sempre qualcosa di buono in tutto. Una grande capacità di mediazione, di fronte anche a delle cose che eventualmente potevano sembrare sgradite, trovava sempre qualcosa di buono. E questo credo che sia l’insegnamento che ci portiamo dentro (si commuovono, ndr) e che vorremmo trasmettere ai figli. Pensiamo sia questo che ci ha lasciato babbo".
Cesare ha scritto molto anche per La Nazione. Vi piacerebbe che proprio La Nazione si facesse promotrice di un’iniziativa in ricordo di vostro padre?
"Sì, quella con La Nazione per lui è stata una grande collaborazione negli anni ’80 e ’90".
Cosa vi piacerebbe fosse organizzato per i 30 anni dalla morte?
"Pensare a un coinvolgimento de La Nazione magari con i giovani per ricordare l’attaccamento alle tradizioni lucchesi, al vernacolo e questo di conseguenza veicolato dal ricordo di mio padre sarebbe davvero molto interessante".
Un’ultima curiosità: è vero che ci sono commedie di Cesare ancora inedite?
"Dei canovacci... niente di strutturato".
Cristiano Consorti

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