"Salviamo il vernacolo, è... ganzo bào"

Intervista a Domenico Bertuccelli, autore e cultore delle tradizioni popolari lucchesi

Domenico Bertuccelli

Domenico Bertuccelli

Lucca, 19 marzo 2017 - Quando sente usare parole straniere al posto di quelle italiane gli viene l’orticaria, gli si alza la pressione. Ma se lo stuzzicate sui termini dialettali e sulla preziosità del nostro vernacolo, ecco che va in brodo di giuggiole. Domenico Bertuccelli, 67 anni, è un attento custode del vernacolo lucchese. Pensionato dopo una vita di lavori di ogni genere, si diletta da anni nel recupero e nella salvaguardia delle tradizioni lucchesi più genuine. Un «guardiano del faro» (nel senso del... cereale garfagnino) che non disdegna le moderne tecnologie, tanto da aver creato un vivacissimo gruppo Facebook: «Parlà lucchese è ganzo bào».  Com’è nata la passione per il vernacolo? «E’ stata una folgorazione intorno ai 40 anni. Mio figlio, tornando da un incontro a scuola con l’autore, mi portò a casa una copia di “Robba della mi’ tera” di Cesare Viviani. Lo lessi tutto in una sera. Rimasi a bocca aperta. Ci ritrovai la parlata dei miei nonni contadini, gli usi e costumi dell’epoca, mi sembrava di averli lì». E quando ha cominciato a scrivere? «Nel gennaio 1993, un mese prima della scomparsa di Cesare Viviani. Prima testi satirici in vernacolo, poi anche poesie e piccoli racconti. Sono un autodidatta. Mi ispiravo anche a Pierin lucchese. All’epoca lavoravo al comune di Capannori e mi nascosi, si fa per dire, dietro lo pseudonimo di “Gavorchio”.  Scritti, ma anche tanti incontri per promuovere il vernacolo. «Sì, questo grazie a Bartolomeo Di Monaco, che si appassionò alle mie poesie in vernacolo. Da lì cominciò l’idea di organizzare anche incontri pubblici». Ha un senso oggi la tutela del vernacolo lucchese? «Certo. E’ importante il linguaggio, è la base di tutte le nostre tradizioni, dei nostri usi e costumi. Sono le nostre radici culturali, essenzialmente di una civiltà contadina. Il vernacolo è sintetico, diretto, efficace, senza tanti preamboli. Alcuni termini poi sono assolutamente intraducibili». Insomma il vernacolo è... ganzo. «Per me sì. Una parte fondamentale di noi. Anche se oggi mi rendo conto che c’è più che altro da salvare l’italiano dall’invasione incontrollata di termini stranieri. Perché dobbiamo usare fashion per moda, gossip per pettegolezzo o highlights per indicare le azioni salienti della partita?  Ma di parole straniere ne abbiamo anche nel vernacolo... «Certo. Quelle dell’occupazione francese, per esempio: le patate mascè, la toaletta, le ceragia. Ma ora è un’aggressione senza tregua. Un inquinamento». Ma lo si può arginare? «Ma... Più che altro ci possiamo ridere sopra. Io lo faccio nelle mie serate di vernacolo. Un monologo divertente in cui immagino mio nonno Agostino di Segromigno in Monte che nel 1920 mentre zappa il campo sente un trillo in tasca e risponde... al cellulare. Un monologo pieno zeppo di termini inglesi. Si capisce e si ride». E il gruppo Facebook «Parlà lucchese è ganzo bào»?  «E’ nato nel febbraio 2010, dopo l’esperienza sul sito “La ’otenna” con Giovanni Giangrandi, Luca Ricci, Gianluca Testa. Mi piaceva l’idea di creare un gruppo che avesse per tema la lingua, ma anche gli usi e i costumi della Lucchesia. E devo dire che piace. Abbiamo oltre 600 iscritti, ma resta solo chi ama davvero il vernacolo. Anche perché dal virtuale si passa ad incontri simpatici in gruppo, ci si conosce dal vivo. Il nostro sforzo è anche salvare la memoria, il paesaggio, gli usi e i costumi, le tradizioni gastronomiche lucchesi. E si avvicinano anche i giovani. Ganzo bào!». E di autori vernacolari oggi chi rimane? «Non molti. Sicuramente Giovanni Giangrandi, bravissimo, che ha scritto un bel “Vernacolario lucchese”, oltre a studi molto interessanti sulle tradizioni locali». E i Lucchesi nel Mondo? «Loro hanno tenuto in frigo il dialetto lucchese e lo conservano abbastanza, sì». Qualche rammarico? «Quello di non aver registrato le voci dei nostri vecchi, la loro parlata, così diversa da una frazione all’altra, la cadenza che non è riproducibile nella trascrizione fonetica. Un tesoro perduto»