"Sulla Luna grazie anche alla mia invenzione"

L’ingegner Bandini (oggi 91enne) lavorò negli anni Sessanta per la Nasa. E registrò persino un brevetto per il 'Lem'

L'ingegner Pietro Bandini

L'ingegner Pietro Bandini

Lucca, 11 ottobre 2019 - E’  trascorso mezzo secolo tondo tondo, ma quella notte magica del luglio 1969, passata a guardare in tv lo sbarco in bianco e nero degli astronauti sulla Luna, non l’ha certo dimenticata. «Impossibile scordarsi quei momenti, in fondo c’era anche un mio pezzettino lassù...», sorride, mentre i suoi occhi azzurri si illuminano ancora di più.

Eh sì, perché l’ingegner Urbano Pietro Bandini, 91 anni proprio oggi, alla nascita di quella storica missione Apollo aveva contribuito in prima persona. La sua è una storia che merita di essere raccontata. Nato a New York l’11 ottobre 1928 da genitori italiani emigrati, all’età di cinque anni va a vivere con la famiglia a Coreglia, dove il padre, daziere, è stato trasferito. Frequenta le scuole in Lucchesia e si diploma al liceo scientifico “Vallisneri” di Lucca. Poi nel 1950, a 22 anni, torna negli Stati Uniti, ma lo spediscono subito nella guerra di Corea. Capiscono che si tratta di un giovane brillantissimo e lo assegnano al corpo medico, nel Far East Command in Giappone, a Senday. Dopo cinque anni Pietro Urbani torna negli Usa, dove lavora e studia giorno e notte, riuscendo a laurearsi al New York City College in ingegneria elettrotecnica.

Un cervello che spicca, il suo. Viene subito assunto dalla Grumman Aerospace, che si occupa di progetti aerospaziali e ha vinto l’appalto della Nasa per il “Lem”, il famoso modulo che gli astronauti dovranno utilizzare per la missione sulla Luna. I primi anni Sessanta sono di intenso lavoro per conto della Nasa e nel 1967 arriva persino un brevetto che porta il suo nome: un sistema di allarme visivo e acustico utilizzato nel simulatore spaziale in cui gli astronauti si allenano a terra, in California.

Oggi Pietro Urbani vive a Coreglia, dove da sempre lo chiamano “Pìri”, ovvero la versione in salsa lucchese di “Peter”.

Ingegnere, cosa ricorda di quei favolosi anni alla Nasa?

«Ero ingegnere elettrotecnico, poi mi specializzai in elettronica. Laurearmi in cinque anni al CCNY non fu facile, perché dovevo anche lavorare per mantenermi.Mi assunse quasi subito la Grumman a Long Island, azienda di punta che selezionava i migliori tecnici per i progetti aerospaziali».

Era nel team di cervelloni che lavoravano per la corsa verso la Luna?

«Sì, io ero italo-americano, ma avevo la cittadinanza americana e mi presero subito: c’era il segreto militare sui progetti. Non potevo parlarne neanche a mia moglie Maria Paola. Furono anni splendidi, ma anche impegnativi. Bisognava dare sempre il meglio. Dopo la tragedia dei tre astronauti morti bruciati all’istante nel gennaio 1967 dentro la capsula di simulazione dell’Apollo 1 satura di ossigeno puro, mi chiesero di partecipare al team che doveva studiare un sistema di allarme adeguato. Era una priorità assoluta. Ebbi l’idea di realizzare un impianto con particolari circuiti e un doppio sistema di allarme visivo e sonoro, che si rivelò innovativo ed efficace».

Infatti ne ottenne il brevetto, vero?

«Sì, vede? Eccolo qui: venne subito brevettato a mio nome dalla Nasa, che manteneva però la proprietà su tutto. Fu una bella soddisfazione mettere la mia firma su quel pezzetto del Lem...».

Ci fu anche un ritorno economico per lei?

«In un certo modo sì. Si guadagnava bene, ma mi alzarono lo stipendio. La mia invenzione fu anche divulgata su riviste specializzate americane. Poi l’Università di New York mi conferì a pieni voti una seconda laurea in ingegneria elettrotecnica».

Un bel traguardo per un italo-americano che si era fatto da solo, no?

«Vero. A quei progetti per la Nasa lavoravamo in più di 60mila, tra i quali 5000 ingegneri. Credo che gli italiani fossimo solo io e un altro toscano. La mia era una famiglia semplice e avevo lavorato molto per emergere».

Poi però tornò in Italia...

«Tornai in Lucchesia. Mia figlia Sabrina è nata qui. Ero a Lucca quando ci fu lo sbarco sulla Luna: lei nacque tre settimane dopo, quindi ha assistito... in pancia alla diretta tv. Poi andai a lavorare per quattro anni alle Officine Galileo a Firenze. Ma mi sembrava di essere passato dall’Università all’asilo... Troppo semplici quelle cose, per me. Così ripartii per gli Usa, dove rimasi fino al 1990. Da allora sono tornato definitivamente a Coreglia».

Qual è il segreto della sua incredibile freschezza a 91 anni?

«Forse le mie passioni. Il podismo, la lettura (anche la Nazione) e la poesia. Ho corso anche la Maratona di New York e fino a due anni fa percorrevo 5 km in salita e 5 in discesa ogni giorno. Ora diciamo che scrivo più poesie».

Lei che ha partecipato alla corsa verso lo spazio, immaginava i progressi tecnologici attuali?

«Noi negli anni Sessanta eravamo quasi degli artigiani, anche alla Nasa. Oggi ci sono strumenti impensabili. Però c’è anche chi pensa che la Terra sia piatta. E quindi alla fine non siamo progrediti così tanto...». L’ingegner “Pìri” Bandini sorride, saluta, si mette al volante della sua auto e riparte. Verso l’infinito e oltre.