{{IMG_SX}}Livorno, 29 luglio 2009 - "Secondo me se fosse successo oggi ci avrebbero fatto minimo un reality. Corona ci avrebbe costruito su un impero. Allora, invece, volevamo fare uno scherzo per pochi, una burla. Erano altri tempi...». Per l’esattezza era l’estate del 1984, 25 anni fa esatti, e a fine luglio, improvvisamente, dalla ruspa che dragava i canali di Livorno, emersero tre teste scolpite nella pietra. Vera Durbè, conservatrice dei musei civici, per poco non collassò: «Oddio sono di Modigliani — sentenziò all’istante — basta saper guardare per capire». In fondo c’era da condividerla.

 

Era stata proprio a lei a patrocinare il dragaggio alla ricerca delle teste che, secondo la leggenda, Modì aveva gettato nei fossi prima di lasciare l’ingrata Livorno nel 1909. Sembrava il più straordinario rinvenimento dell’arte moderna, una specie di «Arca perduta» ritrovata da un Indiana Jones, seppur de noartri. Invece, era la madre di tutte le prese per i fondelli del dopoguerra: «Un figuron di merd pur l’Italì», come titolò un falso Le Monde riprodotto dal Vernacoliere.

 

A ripensare a quei giorni, ancora oggi a Pietro Luridiana si forma come una specie di sorriso sul volto. Fu proprio lui, insieme a tre amici (Pierfrancesco Ferrucci, Michele Ghelarducci e Michele Genovesi) ad avere l’idea di scolpire una falsa testa e gettarla nei fossi. A suo modo un colpo di genio. Ci pensò il destino (e l’approssimazione dei critici d’arte) a renderlo una beffa collettiva destinata a passare alla storia.
Oggi Luridiana ha una moglie e tre figli, si occupa di informatica e ha un negozio a Livorno. Nel 1984, invece, svolgeva il servizio militare nei vigili del fuoco. La sua caserma era a un passo dai fossi: «Ci passavo davanti ogni giorno. E, di giorno in giorno, vedevo cambiare l’umore della gente».

In che senso?
«Dapprima i livornesi parevano come stregati. Tutti a sporgersi sui fossi in attesa del miracolo».
Pensavano che sarebbe avvenuto...
«Ci aveva pensato il Comune a convincerli: le pietre di Modì sono lì, basta andarle a prendere...».
Invece...
«Invece, col passare del tempo e con le sculture che non apparivano, dall’emozione si passò all’ironia. Per cui, quando la draga tirava fuori una bicicletta, tutti a gridare: “La bici di Modigliani”. Pescavano un motorino e tutti: “Ehhh il motorino di Modigliani”. La gente cominciò a pigliare per il culo i poveri operai che faticavano a lavorare nella melma».
E voi decideste di fare giustizia...
«Volevamo pigliare in giro la gente sui fossi, non certo i critici. “Quelli — ci dicemmo — si accorgeranno subito che è una patacca”».


E invece in tanti, da Dario Durbè ad Argan, gridarono al capolavoro...
«Sa che ancora oggi mi chiedo come possa un critico prendere per buona una pietra piatta che non era adatta neppure per un bassorilievo? Figurarsi una testa di Modì! In fondo, una cosa la vicenda me l’ha insegnata».
Quale?
«Che nell’arte ci sono i clan. Se Argan dice che una cosa è vera, per Zevi è comunque falsa. Una specie di Superenalotto dove chi per fortuna indovina, vince».
Un po’ quello che sosteneva Angelo Froglia, l’autore delle altre due teste false ripescate...
«Lui diceva che nell’arte conti solo se vogliono che tu conti. Forse non aveva torto».
Vi siete mai pentiti della vostra impresa?
«Pentiti? E perché? Era semplicemente uno scherzo per lo scherzo. Danni a Modigliani non ne abbiamo fatti».
Ad altri però sì. La Durbé la faceste stare male...
«La Durbè era una donna animata da un sogno...».
Argan, invece, competente lo doveva essere eccome...
«Argan fu straordinario. Prima sostenne che quelle teste erano capolavori, poi disse di non averle mai viste e di essersi fidato di Durbè. Bravino».
Non vi sentite in colpa neppure per aver fatto gongolare i pisani?
«Oddio, è vero: siamo stati un po’ il cavallo di Troia dei pisani. A questo non ci avevo pensato... evvabè».

 

Livorno all’inizio vi ha messo all’indice per aver ridicolizzato la città e la giunta di sinistra...
«Solo i primi giorni dopo il fatto».
Qualcuno di voi ricevette anche minacce telefoniche.
«Qualcuna l’ho ricevuta anch’io. Ma, francamente, non abbiamo mai avuto paura. Dopo la trasmissione alla Rai in cui rifacemmo la statua, comunque, tutto cambiò. La città capì lo scherzo. E ci rise su».
All’epoca della beffa avevate 20 anni: un ventenne di oggi sarebbe capace di fare una cosa del genere?
«Oddio, a dirlo mi sento vecchio. Ma oggi a 20 anni non vedo fantasia. Sembra che i giovani abbiano perso la capacità di divertirsi con le piccole cose».
E fuori da Livorno sarebbe pensabile una beffa del genere?
«Macché. Se invece che a degli amici livornesi avessi chiesto a un tedesco: “Andiamo a fare un falso Modì e poi lo buttiamo nel fosso”, lui mi avrebbe risposto: “E perché?”».
Invece fra livornesi...
«A noi ci basta un’occhiata per capire quando è il momento della presa per il culo. Non c’è un perché a cui rispondere, solo il gusto di farlo».