La Spezia,  9 settembre 2012 - UN UOMO per decenni sotto le luci della ribalta ma al tempo stesso discreto e riservato. Che si è fatto carico del futuro occupazionale dei suoi dipendenti, alla Ifen di Ceparana, e di far scoprire agli spezzini l’amore per l’arte. E che ha fatto sue le altrui sofferenze. E’ questo il «segreto» che Amedeo Lia cercava di nascondere alla cittadinanza. Ieri don Giacomo Massa, dell’ordine dei Francescani, durante i funerali dell’ingegnere nella chiesa dei Santi Giovanni e Agostino, ha «trasgredito» alla promessa fatta all’amico, rivelando ai presenti la sua estrema generosità. «Lia —ha detto dal pulpito— si è servito di molta gente per aiutare i poveri. Mi ha sempre raccomandato di raggiungere le situazioni disperate per cercare di contribuire con un gesto d’amore, e di provvedere ai bambini poveri, 200 orfani del Burundi. Soprattutto a 25 piccoli colpiti da handicap distruttivo».

Proprio quei bambini ieri hanno pregato nelle loro terre, «sono state le loro manine ad aprirgli la porta d’ingresso a Dio».

Parole che hanno toccato il cuore di tutti quanti ieri mattina hanno voluto rendere l’ultimo saluto a quell’uomo, collezionista d’altri tempi, che —come ha ricordato don Giacomo nel corso dell’omelia— «aveva bisogno di creatività, di mettere a frutto la fertilità del suo ingegno» per metterli a servizio di tutti. E proprio gli amici, i parenti, i dipendenti e collaboratori dell’azienda di Ceparana e del Museo Lia, le autorità ma anche gente comune, estimatori dell’arte e delle opere donate da Amedeo Lia alla città, si sono stretti intorno alla famiglia, alla moglie Arietta, ai figli Marina, Andrea e Riccardo e ai nipoti. Una liturgia nel segno della semplicità, celebrata da don Giacomo e da don Piercarlo Medinelli, con la presenza di monsignor Giovanni Battista Chiaradia.

Una foto sorridente dell’ingegnere a pochi passi dalla bara, color castano chiaro adagiata ai piedi dell’altare e addobbata con un cuscino di rose. Il gonfalone del Comune della Spezia, con fascia nera a lutto, a fianco del feretro. E, in prima fila vicino ai familiari, il sindaco della Spezia Massimo Federici che ha indossato la fascia tricolore e che non ha nascosto lacrime di dolore. Immagini struggenti, così come le parole pronunciate dal prete-amico , che parafrasando la pagina del Vangelo di Giovanni ha sottolineato come «i suoi 99 anni hanno il sapere del compimento». Amedeo Lia ha varcato il guado che porta al di là della frontiera della morte ma da tutti sarà ricordato come il padre della cultura spezzina, fatta di ricerca e autentica passione.

 
L’intera comunità, debitrice di una collaborazione al bene comune, ieri con un applauso ha saluto l’ingegnere verso il suo ultimo viaggio, nella cappella di famiglia al cimitero dei Boschetti.
 

Il "pater familias" della cultura spezzina si era spento all’ospedale Sant’Andrea nella tarda serata di gioveì, a 99 anni, circondato dall’affetto dei suoi cari e avvolto dal pensiero di quel patrimonio inestimabile dal quale si era separato nel ’96 ma che aveva continuato a cullare e vezzeggiare.

Nato a Presicce, piccolo paese del Salento, nel 1913, Lia ha avuto una vita intensa, a tratti avventurosa, prima come ufficiale di Marina - aveva frequentato l’Accademia navale di Livorno, laureandosi in ingegneria meccanica, e guadagnato una medaglia al valor militare durante la seconda guerra mondiale -, poi come intelligente industriale - a lui si deve il brevetto di un congegno elettronico per smagnetizzare e sminare le navi nemiche -. Nel ’49 il lavoro lo aveva portato a trasferirsi, insieme alla moglie Ariella Moretti, nella città sprugolina e alla Spezia aveva deciso di crescere i suoi tre figli.

Appassionato di automobili e motori, lavoratore instancabile, ma soprattutto raffinato intenditore di dipinti, in cinquant’anni di viaggi attorno al mondo Lia aveva messo in piedi una collezione di straordinario valore: opere che documentano il gusto dell’arte in Italia e in Europa dall’epoca classica al tardo antico, al Medioevo, all’età moderna: dipinti di Pontormo, Tiziano, Tintoretto, Bellini, tavole, miniature, sculture in bronzo, argento, avorio e legno, vetri, maioliche.

Ma il pezzo forte erano i cosiddetti "primitivi": oltre 70 tavole risalenti al ’200 e ’300, che il mercante salentino aveva acquistato fin dai primi anni ’50, anticipando le future entusiastiche valutazioni dei critici. Un tesoro rimasto esposto per anni sulle pareti della villa di famiglia, abbarbicata sui Colli.

Poi un bel giorno l’ingegnere, preoccupato del futuro della collezione, bussò alle porte del Municipio, dicendosi disposto a cedere tutto, purché il Comune si facesse carico di realizzare in tempi brevi, brevissimi, una sede espositiva adeguata.

Correvano gli anni di Lucio Rosaia e in tempi record l’ex convento dei frati minori di San Francesco fu ristrutturato e allestito, pronto per trasformarsi in un museo che tuttora porta il nome del suo promotore. Vi trovarono sistemazione oltre mille opere, cedute alla città con un atto di donazione modale, in cambio della quale l’ingegnere chiese soltanto l’impegno a valorizzare al meglio un patrimonio di cultura del quale gli spezzini diversamente non avrebbero potuto godere.

Ieri la famiglia, profondamente colpita dalla perdita, si è stretta in un riserbo assoluto e la notizia della scomparsa non è trapelata neanche da fonti istituzionali.

di Roberta Della Maggesa e Laura Provitina