Travolto da motociclista ubriaco, muore dopo mesi di coma, "Ora vogliamo giustizia"

La storia di Michele Zugliani. Parlano la moglie e la figlia

Rosaria Abate e la figlia Giada

Rosaria Abate e la figlia Giada

La Spezia, 20 gennaio 2019 - Michele Zugliani, 49 anni, in sella ad uno scooter, fu travolto da un motociclista ubriaco che aveva perso il controllo del mezzo - una Yamaha di media cilindrata - aveva invaso la corsia opposta, dove lui, dipendente dell’Arsenale, transitava. Accadde il 16 agosto del 2017, in viale Italia, alle 20,30.

Una scena raccapricciante si delineò davanti ad alcuni testimoni: il centauro, percorrendo la strada a quell’ora senza pressione di veicoli, ‘deviò’ all’improvviso, invadendo la corsia dove, in quel momento, transitava il cinquantenne, padre di famiglia. Lo scontro fu frontale; innescò il volo dell’arsenalotto che, sbalzato dalla sella, è poi precipitato sull’asfalto, a dieci metri di distanza dal punto della collisione.

Michele era da pochi minuti uscito dall’ospedale, lì era andato ad assistere il papà ricoverato. L’altro si era appena congedato da un circolo sociale, a Migliarina. Per gli effetti della sua folle imprudenza, aveva rischiato di essere preso a calci e a schiaffi da un passante; era uno degli amici che, invano, poco prima, avevano cercato invano di trattenerlo all’interno del circolo affinché smaltisse l’eccesso di alcol.

Lui aveva voluto tornare a casa in moto e, dopo aver violato un divieto, aveva imboccato viale Italia, dove si è poi consumata la tragedia. Michele, fin da quel momento, devastato dai traumi, era entrato in coma. Fin dalla sera stessa dell’incidente fu ricoverato al San Martino. Due mesi dopo il trasferimento all’istituto don Gnocchi della Spezia, nella speranza della ripresa. Tutto vano, fino alla decisione del ricovero alle Missioni, per restare aggrappato, con un filo, alla vita. L’altra sera si è spezzato.

Diciotto mesi di coma, di speranza che, nel progress del tempo, si era tramutata in rassegnazione per i familiari di Michele Zugliani, tenuto in vita dalle macchine, alimentato con le flebo. Un’agonia per il suo corpo e per lo spirito della moglie e della figlia che gli sono stati a fianco nel calvario, sostenendolo con gesti premurosi, parole di incoraggiamento sussurrate all’orecchio, con l’aspettativa di un sussulto, che non c’è mai stato. Una grande prova di amore, quella che ha accompagnato l’arsenalotto fino alla fine dei suoi giorni. Il suo cuore, alla distanza, non ha più retto, complice una crisi respiratoria.

L’operaio spezzino, padre di una ragazza di 21 anni, ha chiuso per sempre gli occhi l’altra sera, in un lettino del reparto di pneumologia dell’ospedale San Bartolomeo di Sarzana. E’ accaduto esattamente 536 giorni dopo l’assurdo incidente di cui fu vittima, in viale Italia, all’altezza dell’Oviesse, il 16 agosto del 2017, attorno alle 20,30, mentre stava per raggiungere la famiglia, nella casa di via San Venerio.

Nessun dubbio sulle colpe dell’investitore, P.B., spezzino. Il report della Polizia Municipale alla Procura era stato tranchant, sulla scorta dell’alcoltest e delle testimonianze raccolte. Per lui si era incardinato un procedimento per lesioni gravissime. Con la morte di Michele, il reato cresce di spessore: omicidio stradale, con l’aggravante connessa della guida in stato di ebbrezza. Assistito dall’avvocato Daniele Caprara, l’imputato – che subito dopo l’accaduto ha fatto ricorso alle cure di uno psicologo per superare momenti di squilibrio - ha fatto istanza di messa alla prova.

La discussione è prevista a breve. La circostanza è vissuta dai familiari come un’altra ferita nel cuore. «Chiedo che la giustizia non faccia sconti all’uomo che ha provocato la morte di mio marito, il suo calvario, il vuoto nei cuori di noi familiari» dice la moglie Rosaria Abate, operatrice in un call center. Negli ultimi 18 mesi la sua vita è stato un continuo alternarsi tra posto di lavoro, casa e ospedali; prima al San Martino, poi al don Gnocchi, poi alle Missioni, con l’onere parallelo di crescere la figlia, che studia. «Sono stati mesi terribili, di speranza, rassegnazione. Ci ha sorretto il conforto dei parenti, dei colleghi, degli amici di Michele; grande anche la dedizione del personale sanitario, sopratutto degli operatori del Don Gnocchi. Voglio ringraziare tutti: è stata una bella testimonianza di solidarietà, di affetto. Pensiamo che anche Michele, pur nell’assenza di reazioni palesi, l’abbia percepita nel profondo del suo animo».