Fa il test Covid il 13 marzo. "Non c’è ancora il referto"

Oltre due settimane d’attesa per un’Oss entrata a contatto con un caso positivo "Non so che fine abbia fatto il mio campione e vivo con l’angoscia nel cuore"

Un operatore sanitario pronto ad eseguire il tampone per la ricerca di Covid

Un operatore sanitario pronto ad eseguire il tampone per la ricerca di Covid

Sarzana, 30 marzo 2020 - “Una parte dei tamponi che dovevano diagnosticare la positività al Covid sembra sia andata persa e ci sono operatori che attendono il risultato da oltre quindici giorni’’. Fin qui la denuncia dei sindacati, sintetizzata in una lettera che Cgil, Cisl, Uil e Fials hanno indirizzato venerdì scorso ai vertici Asl. Ma dietro le parole, per quanto forti esse siano, ci sono persone in carne e ossa. E le loro storie, come sempre accade, sono assai più crude di quanto un esposto potrà mai essere.

Sara, nome di fantasia usato per proteggere l’identità di chi ha trovato il coraggio di raccontarci la propria esperienza, è una di loro. Fa l’operatrice socio sanitaria per Coopservice e lavora al pronto soccorso di Sarzana, dove da settimane vige ormai la distinzione tra area verde e area gialla, ossia tra la sezione destinata ai ricoveri ordinari e quella riservata a pazienti Covid o sospetti. Prima non era così e all’inizio dell’emergenza il reparto ha funzionato per giorni come struttura unica. Il caos in quei primi momenti era assoluto. E le protezioni per il personale Oss, come più volte denunciato dai sindacati, praticamente inesistenti. "Il primo campanello di allarme – racconta Sara – è scattato sabato 7.

In tarda serata sono stata contattata dal capoturno. In reparto era transitato un soggetto positivo. Il giorno successivo – mi è stato detto – sarei stata sottoposta a tampone, esattamente come il resto del personale entrato in contatto col paziente. So per certo che alcuni colleghi hanno fatto il test quel giorno stesso. Ma per me le cose sono andate diversamente. La domenica nessuno si è fatto vivo, e così nei giorni successivi". Nel frattempo il contagio si è allargato. E alcune misure di precauzione sono state assunte, a cominciare dalla distinzione tra area verde e area gialla del pronto soccorso. Ma i dispositivi di protezione, almeno per gli Oss, tardavano ad arrivare. "I primi tempi – riferisce Sara – quando mi toccava il turno in area gialla, portavo dei filtranti FFP2 da casa, perché l’azienda non li distribuiva e riuscire a farseli passare dai colleghi Asl era complicato. C’era bisogno di un tira e molla quotidiano.

Poi, fortunatamente, le mascherine sono arrivate, almeno per la zona a rischio". Già, perché gli Oss nell’area verde hanno continuato a lavorare con un sovracamice verde di carta e una semplice mascherina chirurgica. La giustificazione è che quella parte del pronto soccorso dovrebbe essere ‘pulita’. Ma i fatti dimostrano che non sempre è così. Una ventina di giorni fa è stata ricoverata un’aziana: è entrata al pronto soccorso per patologie che nulla hanno a che fare con Covid, ma durante la degenza sono emersi sintomi specifici. E’ stata sottoposta a radiografia e il referto ha evidenziato una polmonite bilaterale.

Quindi è scattato il trasferimento alla zona rossa e poi un percorso dedicato di diagnosi, al termine del quale è arrivato il riscontro di positività. Tutti coloro che sono entrati in contatto con la paziente – medici, infermieri e Oss – sono stati sottoposti a tampone. A Sara il test è stato fatto il 13 marzo, direttamente al pronto soccorso di Sarzana. Il risultato era atteso per i giorni immediatamente sucsessivi. Ma oggi siamo al 29 marzo e del referto non c’è traccia. Una settimana dopo il tampone, Sara, che nel frattempo era entrata in malattia, ha cominciato a chiamare in reparto per avere notizie. Il risultato non era ancora disponibile. Idem nella struttura di malattie infettive, con la quale ha stabilito un contatto diretto nei giorni successivi. "Dicono – si sfoga – che il referto non c’è. E non sanno spiegarmi quale sia il motivo. Ormai sono passate più di due settimane ed è subentrato lo sconforto, anche perché conosco la situazione di alcuni infermieri sottoposti a test il mio stesso giorno e per i quali il tampone è già stato ripetuto. A me invece non hanno detto nulla. Di mia iniziativa, ho assunto alcune precauzioni in casa per proteggere mio marito e mio figlio da un potenziale contagio. Evito ogni tipo di contatto con loro, rispetto la distanza di sicurezza. Indosso costantemente mascherina e guanti, soprattutto quando maneggio suppellettili e cibo. Ma vivo con il cuore in gola". © RIPRODUZIONE RISERVATA