Dalle grandi stragi alle carrette affondate. Buticchi ci racconta il suo ‘Mare dei fuochi’

Lo scrittore lericino si cimenta con le tragedie del Dc9 Itavia e della stazione di Bologna, ovviamente rivisitate in chiave letteraria "Non ho voluto incontrare i parenti delle vittime, per non entrare nel dolore altrui. Avranno giustizia, ma sarà comunque tardi"

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di Marco Magi

Ero un bambino allora, ricordo già con quegli occhi le stragi del 1980. Immagini devastanti, filmati e approfondimenti sul Dc9 Itavia e la stazione di Bologna, che ho rivisto negli anni, costruendomi un’opinione, mutandola, ritrovandola rivisitata, per poi scoprire sempre nuovi tasselli. Merito di ricercatori, storici, scienziati ed esperti di vari settori. E perché no, anche grazie agli scrittori d’avventura come Marco Buticchi. Il noto autore spezzino, che coi suoi libri ha superato il milione e mezzo di copie vendute, ha pubblicato con Longanesi il suo romanzo ‘Il Mare dei Fuochi’. Lo presenterà a ‘Libriamoci’, venerdì alle 18.30 in Sala Dante, insieme a Angelo ‘Ciccio’ Del Santo, con letture della figlia, Beatrice Buticchi.

Nella quindicesima avventura di Oswald Breil e Sara Terracini s’intrecciano proprio quelle due terribili vicende e le ‘navi a perdere’ – le carrette del mare affondate in pieno Mediterraneo con il loro carico di morte –, un trasporto nucleare e tante morti sospette.

Marco perché proprio ora un romanzo così?

"Intanto Draghi ha desecretato i documenti di quei tristi misteri, ma non è l’unico motivo. Innanzitutto... ai libri non si comanda. Poi mi sono sentito in dovere, perché dopo oltre quarant’anni non è possibile che la verità sia ancora nascosta!".

Ufficiale di complemento nella caserma ‘Mameli’ di Bologna, congedato a fine luglio del 1980. Il 2 agosto la bomba alla stazione ferroviaria. Non ha pensato che magari poteva essere lì?

"Sarebbe potuto accadere, seppure i treni per Spezia mi sembra partissero nel pomeriggio (l’attentato alle 10.25, ndr.). Oltretutto la nostra sede era a un solo chilometro di distanza. Quelle immagini in tv dei miei soldati impegnati a liberare feriti e cadaveri, con le mani sporche di detriti e gli occhi pieni di lacrime, che si chiedevano ‘perché?’, mi hanno segnato. Ho anche raggiunto Bologna, ma non potevo fare più niente, ero ormai un civile. Le prime notizie furono che fosse saltata una caldaia, ma dato che quando scoppiò piazza Fontana nel ‘69 si disse di una fuga di gas, ho compreso subito che qualcosa non andasse. E lì ho promesso che se un giorno fossi stato nelle condizioni di scrivere, ne avrei parlato".

Perché un romanzo d’avventura può invitare ad aprire certi archivi governativi?

"È molto più divulgabile di un saggio ed è forse meno impegnativo. Non deve raccontare verità, il saggio sì. Se mi leggi, puoi pensare che ti stia facendo divertire, senza istruirti. Non sa quanti, dopo aver guardato la bibliografia e letto altri testi, mi confidino ‘lei aveva ragione’". Svelare le verità potrebbe minare la democrazia attuale, come quella di 41 anni fa?

"Sotto di esse vi sono dei fatti sconvolgenti, a cui sono seguite almeno 16 morti. Allora come oggi, conviene a qualcuno di davvero potente tenerle segrete. Le mie personali conclusioni non credo vadano molto distanti dalla realtà".

Morti per colpa della ‘ragion di Stato’?

"Non lo so. Ma tutti in una maniera talmente... non mortale, da far pensare. Ad esempio, l’incidente delle Frecce tricolori a Ramstein o il maresciallo (che era quella notte di guardia al radar, ndr.), che accompagna a scuola il figlio e tornando a casa si impicca. Paiono abbastanza strane. Poi, tra gli altri, anche quello che chiamo Di Romeo, morto mentre viene proprio alla Spezia".

C’è un motivo per cui, ancor più del solito, il territorio spezzino è presente nel romanzo?

"È un vero piacere parlare di ognuna delle Cinque Terre e di altre zone meravigliose. Avevo voglia di descrivere i nostri posti, di divulgare bellezza".

Ha incontrato, per documentarsi, qualcuno dei parenti o dei personaggi della storia reale?

"Per il timore di toccare delle ferite ancora aperte, mi sono astenuto. La difficoltà di questo romanzo è stata la delicatezza con la quale si è dovuti entrare nel dolore altrui".

Quelle persone avranno giustizia prima o poi?

"Mi auguro di sì, ma sarà comunque troppo tardi. La giustizia difficilmente ripaga di fronte a cose così gravi, e questa ripagherebbe ancora meno: una generazione di vuoto, tante cose cambiano, perfino il risentimento e il dolore. Nei tre casi interessati, Ustica, Bologna e le navi a perdere, l’insulto è all’Italia intera, non ai singoli individui".

Si sente un ‘complottista’?

"Non sono il tipo, anzi sono talmente poco complottista, che ho scritto un libro abbastanza obiettivo. Se lo fossi stato, con la mano ‘libera’, avrei infilato dentro di tutto".

Sta ragionando su altri misteri irrisolti, come Unabomber o il mostro di Firenze?

"Non mi dispiace andare a rivangare i lati oscuri dell’Italia, l’ho già fatto per il caso Moro ne ‘La stella di pietra’. Mi ha anticipato, sono entrambi begli argomenti per delle prossime pubblicazioni".

Libro aperto da una parte, smartphone per consultare internet dall’altra. Si può leggere pure così, come me, ‘Il Mare dei Fuochi’, per scoprire personaggi veri, verosimili o di fantasia?

"Questo è il segreto degli scrittori dei romanzi storici. Quello che il Manzoni suggeriva per il verosimile, cioè non far capire la differenza tra il vero e qualcosa che potrebbe essere accaduto. Ciò vuol dire, in alcuni casi, travisare semplicemente il nome, per ovvie questioni o per non aggiungere dolori".

Oltre a documentarsi ampiamente molto prima di iniziare a produrre, ha visitato i luoghi dei fatti?

"Non sono andato alla Timpa delle Magare, dove è caduto il mig libico, per il resto sì. Di sicuro, per scrivere bisogna studiare, esserci stato non è mai sufficiente".

Crede che il riconoscersi da parte di qualche persona legata alle mafie o alla segretissima intelligence, potrebbe crearle problemi?

"Tutti noi che scriviamo, potremmo averne da un momento all’altro. È un rischio che si corre per il mestiere. Abbandonare, e mi permetta una parola grossa, il cosiddetto giornalismo di inchiesta, significherebbe abbandonare la richiesta di giustizia della nazione. Non mi sento investito di quel ruolo, ma una persona che intende affermare alcune verità, pur romanzate, guardando i fatti. Senza troppa paura".