La fatica di Lollo vale molto più di una Superlega

Venuti, la partita a Verona e il sacrificio silenzioso. Il senso di appartenenza di un "tifoso viola"

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Stefano

Cecchi

Quando l’altra sera se ne è andato sulla fascia con un colpo d’ala a metà fra le fughe di Joaquin e gli effetti di David Copperfield e poi l’ha messa dentro a procurare il rigore vincente di Vlahovic, tutta Firenze ha avuto come un colpo al cuore. E quando poi una partita intera di intensità e sacrificio gli ha consegnato la palma di migliore in campo, il colpo al cuore si è trasformato in un brivido d’orgoglio. Che lui ha sentito più di ogni altro. In fondo fu lui stesso a raccontare che il giorno dell’esordio al Franchi, quando lo speaker annunciò il suo nome e lo stadio in coro rispose col suo cognome, provò una della sensazioni più forti della vita: "Fu il raggiungimento di un sogno". Lorenzo Venuti è il calciatore che più di ogni altro dispiega ciò che noi definiamo "senso di appartenenza". L’atleta simbolicamente più lontano da quella roba di plastica e denaro che volevano chiamare Superlega. Fossimo nell’800 e ci fosse ancora un De Amicis a raccontare le storie di Cuore del Calcio, lui starebbe probabilmente fra il "Tamburino sardo" e "a piccola vedetta lombarda". Venuti, il "piccolo terzino toscano" a ricordarci come il richiamo del cuore possa fare una eco ben più rumorosa rispetto a quella, fragile e fuggevole, di ogni altra seduzione, si chiami "successo" o "conto in banca". Per dire: la Fiorentina lo paga meno di Igor e di Barreca e con lo stipendio di Callejon si ingaggerebbero 6 Venuti, eppure in campo lui è sempre quello che spende di più, una ventata munifica di energia e applicazione. Quando Andrea Agnelli afferma che "il calcio non è più un gioco ma un comparto economico", dovrebbe guardare a Venuti e un po’ provare vergogna. Tant’è.

Lorenzo Venuti nel gruppo lo chiamano "Lollo", con la familiarità e la confidenza che si dà alle persone care, quelle sulle quali sai di poter contare nei momenti del bisogno. Una bussola etica nell’arcipelago dello spogliatoio. Quando Prandelli parlando di lui disse: "E’ il mio nuovo Jorgensen", in molti pensammo fosse una esagerazione. Non lo era. Perché in un gruppo che è un insieme di ragazzi confusi e milionari arrivati da mille latitudini, lui è quello che trasmette il peso della maglia. Uno che il viola l’ha disegnato dentro, visto il percorso compiuto. Nato a Montevarchi nel 1995, già a 9 anni vestiva la maglia viola, conservata per altri 10 anni attraverso tutte le categorie delle giovanili fino alla Primavera.

Una storia di vita. Solo Federico Chiesa, il gelido e lunare Chiesa, si è dimostrato impermeabile a ogni possibile coinvolgimento passionale. Un marziano casualmente passato da Settignano. Lui no. Lui, al contrario, sta mostrando come solo assaporando il profumo buono del passato si possa dare il giusto valore al presente. Il vissuto del passato, fatto di mille piccole storie, di mille piccole emozioni che non possono non lasciare tracce.

Così quando Cesare Prandelli qualche mese fa si presentò al gruppo e, per fare capire cosa fosse la Fiorentina, raccontò di Ribery al Bayern e della notte crudele di Coppa Campioni, a lui un po’ veniva da sorridere: "Volevo alzare la mano e dirgli: mister, guardi che quella sera in campo c’ero anche io. Facevo il raccattapalle e purtroppo mi ricordo bene il gol di Vargas ma anche quello di Robben....". Piccoli dolori sportivi che aiutano a crescere. Lollo Venuti, il senso della dedizione e l’orgoglio di difendere la propria causa sportiva. Con la sua "C" strascicata e la cupola a fare da punto di orientamento nella vita, nella Fiorentina appartiene alla categoria rara dei profeti in patria. Come Carlino Piccardi, grande terzino sinistro della formazione anteguerra di Galluzzi, prima squadra in Italia ad adottare il "sistema", raccogliendo applausi e stupore ovunque giocasse.

Come il "ragazzo di san Frediano", quell’Andrea Orlandini che dopo 3 minuti dall’esordio segnò al monumentale Zoff e poi, in una fredda sera olandese nella nazionale di Bernardini, ebbe la consegna meravigliosa e impossibile di arginare Cruijff. Come Alessio Tendi da Fiesole, il terzino metallurgico che un giorno ebbe la forza di smontare la Juventus del padrone delle ferriere Agnelli. O come Francesco Flaschi, il ragazzo che giocava bene e che avrebbe potuto essere il nostro Totti se il destino fosse stato meno beffardo. Ecco, Venuti il profeta in patria forse non sarà mai tecnicamente né Maldini, né Facchetti e nemmeno Cabrini. Lo stesso, in un Calcio che sta smarrendo se stesso, lui è il fuoriclasse dell’anima, l’eresia della passione, una necessità più che un orgoglio. Cento e cento ancora di serate come quella di Verona, Lollo. E chi non tifa per te, la peste della Superlega lo colga.

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