Il dubbio di Vincenzo e il bivio di King Arthur Cabral o non Cabral?

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Cabral o non Cabral? Come Amleto sulle torri di Elsinora, così i tifosi viola da qualche settimana si interrogano sul loro centravanti: è lui l’uomo adatto sul quale costruire là davanti la squadra del prossimo anno o per restare in alto serve un altro bomber? Voci raccontano che lo stesso Vincenzo Italiano sia roso dal tarlo del dubbio e la sua esclusione nell’ultima gara con la Juventus questo certificherebbe. Qualcosa che comunque dispiace. Perché Arthur Mendoca Cabral, 90 chili di stazza distribuiti su 186 centimetri d’imponenza, uno che non a caso dice di ispirarsi a Hulk, il calciatore ("Nei movimenti e per come gioco credo di somigliargli") all’arrivo a Firenze ha rappresentato l’uomo del riscatto. Il centravanti che giungeva a compensare la fuga di un ragazzo serbo che forse la città aveva amato troppo senza esserne minimamente ricambiata, almeno a giudicare dalle dichiarazioni recenti sul dna e roba simile. Tant’è. Quella su Cabral non era comunque una speranza illogica, visto che in Svizzera tutti lo chiamavano "King Arthur", a dire che l’area avversaria era il regno sportivo dove lui comandava e dettava le regole. Un brasiliano comunque atipico.

Originario di Campina Grande, polo industriale nel nordeste, anche il suo calcio pare avere mutuato l’indole del luogo. Niente palleggio, leggerezza e dribbling, piuttosto la potenza metallurgica di una macchina industriale da gol: in campionato col Basilea in 106 partite ne aveva segnati 65. A livello europeo era andato addirittura oltre, segnandone ben 13 in 12 partite di Conference League. Un’esposizione di potenza calcistica che, nel gennaio scorso, gli aveva consentito di ricevere il premio come miglior giocatore del campionato svizzero. L’uomo del riscatto, appunto. Il problema è che di tutto ciò nel suo percorso italiano s’è visto ben poco, consegnandoci alla fine un solo colpo assoluto da campione, ovvero quel gol a Napoli misto di potenza, classe e prepotenza atletica. Lasciandoci però anche in quel caso con dentro un dubbio amletico: quel lampo era l’annuncio di un temporale benefico di gol o l’atto unico, per quanto meraviglioso, che già fu dei Larrondo, dei Wolski e dei Portillo? Il dubbio, ahimè, non è ancora sciolto e il rischio della delusione è alto. Eppure in qualche modo il tempo di Cabral a Firenze non sembra essersi esaurito. Anzi. Intanto perché, con i suoi 24 anni acerbi, King Arthur è ancora un centravanti in itinere. Uno che ha bisogno di crescere, di diventare padrone del ruolo, e Moena è lì pronta a fare da liceo didattico a un atleta arrivato da un mondo calcistico troppo distante per non avere prove d’appello. E poi perché Cabral sembra avere dentro un racconto ancora inesplorato di calcio, qualcosa di fragoroso che abbiamo visto solo a tratti e che vale la pena attendere. E siccome a oggi le alternative al suo nome sono quelle di ragazzi ventenni che sarebbero lo stesso una scommessa, allora forse l’azzardo vale giocarlo in casa, risparmiando investimenti per il centrocampo e la difesa dove, a oggi, non ci sono scommesse ma solo assenze. Insomma: Cabral o non Cabral, forse non è un dilemma, piuttosto un’aspettativa, un’attesa, un auspicio. Con la speranza che alla fine non sia solo una chimera.

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