Anche Ribery è umano: va gestito meglio

Fin quando ha avuto benzina Franck ha fatto impazzire la Lazio. Poi è calato e la Fiorentina ha rischiato grosso. Così è arrivata la beffa

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Dove eravamo rimasti? Ah sì, Fiorentina-Brescia e quella grande prestazione senza l’acuto del gol. Stavolta a Roma Franck Ribery ha chiuso il cerchio e lo ha fatto come solo i campioni possono fare. Panico nell’area avversaria, numero tra due e palla sul paletto più vicino al portiere con Strakosha piegato in un gesto innaturale per non cadere in terra, confuso dalla rapidità di piedi e di testa del francese. Peccato che la prodezza sia solo servita a riempirsi gli occhi e non la classifica, ancora anemica. ’Clonate Di Livio’, erano ’due aste’ che facevano bella mostra di se ai tempi in curva Fiesole. Potere del numero e della affezione alla maglia viola. Ma la mistica del numero in casa Fiorentina (e nel mondo del calcio) è qualcosa che affonda le radici del passato. I viola nei 94 anni di storia, hanno sempre avuto attaccanti dal piede sopraffino e dalla sfacciata qualità tecnica. Numero che ha fatto innamorare palati fini del pallone e ha un Viola Club storico – e che club – tutto dedicato ai profeti della fascia offensiva come il 7Bello. Da Julio Botelho, meglio conosciuto come Julinho, e Kurt Hamrin.

Numero 7 uguale classe e palla a terra, per accarezzarla come nessun altro, trasformandosi da cursori a grandi realizzatori. Il primo esempio Romeo Menti, sangue granata certo, ma cuore viola fino alla fine. Tre grandissimi alla cui tavola può sedersi tranquillamente anche Ribery. Non solo per quello che sta facendo in viola, ma per quello che ha rappresentato e vinto con la maglia del Bayern Monaco. In 425 partite (124 reti) si è preso la soddisfazione, di vincere nove campionati in Baviera e una serie di coppe in Europa e nel mondo.

Gli scettici lo avevano già bollato come ’colpo mediatico’ (per informazioni chiedere a diversi presidente italiani) e invece Ribery ha ancora tantissimo da dare al calcio in generale e alla Fiorentina in particolare.

Anche all’Olimpico, fino a quando il fiato lo ha sorretto – veniva da 90 minuti giocati lunedì alla ripresa del campionato e soprattutto dopo il lungo stop per infortunio – è stato il faro della squadra.

L’uomo a cui dare in pallone per uscire a distendersi e a far male agli avversari. Una sensazione di onnipotenza calcistica; o meglio di superiorità disarmante ogni volta che puntava l’avversario sulla corsia di sinistra per poi rientrare sul destro, il suo marchio di fabbrica in Germania e qui a Firenze.

Poi, come detto, la seconda partita ha iniziato a pesare sulle gambe, ma non sulla velocità di pensiero e anche senza grandi guizzi fisici ha cercato di gestire la sua prestazione. Questa sarà un’ulteriore molla per lavorare con determinazione per aumentare la sua autonomia. In questo senso il lavoro non lo ha mai spaventato. Anzi.

Campione in campo e campione al di fuori della sua professione. Un esempio di dedizione al lavoro per i giovani che lo hanno visto allenarsi dopo essere rientrato a notte fonda dopo una trasferta o alzarsi all’alba e presentarsi al campo di allenamento prima di tutti. Non male per uno che i più ritenevano a fine corsa. La corsa, invece, è quella dei tempi d’oro, con tanta classe che luccica. Eccome se luccica. Se ne sono accorti tutti anche in Italia.

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