"Così ho vestito Pinocchio". Massimo Cantini Parrini, quella lezione dei premi Oscar

Il costumista fiorentino si racconta: dal sodalizio con Garrone alla sua collezione privata. Allievo del premio Oscar e di Gabriella Pescucci, ora sogna di aprire una fondazione

Massimo Cantini Parrini

Massimo Cantini Parrini

Firenze, 19 febbraio 2020 - Per molti è l’erede del grande Piero Tosi. Del resto Massimo Cantini Parrini fu allievo del costumista fiorentino premio Oscar scomparso lo scorso agosto, come dell’altro Oscar Gabriella Pescucci. Nato a Castello, studente all’Istituto d’arte di Porta Romana, del Polimoda, poi laureato in Cultura e Stilismo della moda all’Università di Firenze, è un re del costume per il cinema (tre David di Donatello e un Efa) e il suo sodalizio con Matteo Garrone lo ha portato infine a lavorare al Pinocchio al quale è dedicata la mostra in corso al Museo del Tessuto di Prato.

Nel suo palmarès ha tre David di Donatello per i costumi (per Il racconto dei racconti, Indivisibili e Riccardo va all’Inferno) e un European Film Award per Dogman, oltre a due Nastri d’argento e a due Ciak d’oro.

E' soddisfatto della mostra in corso al Museo del Tessuto di Prato?

"Sì, molto soddisfatto. E' la prima volta che viene allestita una mostra esclusivsamente sul mio lavoro, sono colpito. Doppiamente colpito, perché si è riusciti anche a fare un catalogo con una casa editrice importante, Silvana Editoriale, e non è sempre facile. E' bello che la mostra rimanga nel tempo grazie a un libro. E poi è bello che sia al Museo del Tessuto, uno spazio perfetto, supercontemporaneo ma con una storia antica. Insomma, un'esperienza meravigliosa".

Fra le sue tante collaborazioni, il sodalizio con Matteo Garrone è forse il più noto. Com'è lavorare con lui?

"Con Matteo Garrone ho lavorato per Pinocchio ma anche per Dogman e per Il racconto dei racconti. La libertà che ha nello scegliere i costumisti è quella che dovrebbe essere sempre lasciata a un regista. Bello avere una collaborazione così consolidata con lui, un artista a 360 gradi: siamo sulla stessa lunghezza d'onda e mi lascia totale libertà".

E per Pinocchio come si è preparato?

"Non ho voluto rivedere nulla, né Comencini né altro, per non essere influenzato. Non ho mai avuto un legame particolare con la fiaba di Collodi né con il film di Comencini, ricordo che mi piacque molto all'epoca ma il mio rapporto con Pinocchio è un altro. Io sono fiorentino di Castello, dove Collodi soggiornò spesso nella villa di suo fratello e proprio lì trovò ispirazione per molti dei personaggi di Pinocchio. Quindi ricordo i racconti dei nonni, per me la fatina era esistita davvero e veniva dalle mie stesse zone. Era quindi la verità dei personaggi che mi affascinava".

Torniamo indietro nel tempo: le sue origini. La nonna sarta, l'istituto d'arte a Firenze, il Polimoda.

"E' normale sviluppare la propria ispirazione artistica se si nasce a Firenze. Io poi ero affascinato da mia nonna, che era una sarta, e dal suo laboratorio: per me era magia".

Poi venne il Centro sperimentale, dove è stato allievo del grande Piero Tosi. Spesso si parla di lei come del suo erede. Che ne pensa?

"La passione mi portò a fare quella scelta. A 13 avevo deciso cosa avrei fatto nella vita: non dicevo il costumista perché non sapevo nemmeno cosa fosse, ma ero interessato alla storia del costume. E volevo imparare a tagliare e cucire non per la moda, ma per sapere un domani come dare istruzioni alle sarte con le quali avrei lavorato. Peraltro fui molto fortunato: in quell'anno per la prima volta c'era un'affiliazione all'Fit di New York e mi laureai proprio durante il Centro sperimentale. Una doppia formazione. Sono stato allievo di Piero Tosi e Gabriella Pescucci, si continua su quella strada. Certo, ci sono differenze fra ieri e oggi: Piero per il Gattopardo ebbe un anno di tempo, io per il Racconto dei racconti solo cinque settimane...".

Alla notte degli Oscar sono stati celebrati solo due italiani, tutti e due fiorentini: Tosi e Zeffirelli.

"Si amavano molto. Ma Piero non voleva andare negli Usa. Mi diceva: è così bello stare qui".

La chiamano "archeologo della moda". Le piace la definizione?

"In un certo senso è vero, perché mi piace scavare e ricercare. La mia collezione è tutta documentata e catalogata: mi piacerebbe fare una fondazione per valorizzarla".

In conclusione, quali sono i principi ispiratori del suo lavoro?

"Io discuto molto coi registi, perché il costume fa paura. Ma si devono fidare di chi fa questo lavoro. Credo che il costume vada fatto in sottrazione, io tolgo cose, non le aggiungo. E metto sempre qualcosa che non c'entra, uno sbaglio che faccia verità, perché noi siamo così, altrimenti la perfezione saprebbe di finto. Quindi direi semplicità, verità e sbaglio".

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