Cara amica, abbi fiducia nel tuo coraggio

L'editoriale di Agnese Pini, direttrice de La Nazione

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

Firenze, 12 gennaio 2020 - Cara amica, posso chiamarti così? Mi permetto di farlo perché abbiamo più o meno la stessa età, perché mentre leggevo il racconto (che pubblichiamo su La Nazione) della notte in cui sei stata picchiata e aggredita da un uomo in pieno centro a Firenze, meno di 48 ore fa, mi sono sentita piegare le ginocchia. Stavi tornando a casa dal lavoro, cara amica che sei come me, che sei come tante di noi: anche io faccio tardi al lavoro, anche io cammino di notte da sola. Quante volte mi è capitato, a Firenze come altrove? Centinaia. Sempre dicendomi: «Non può succedermi nulla».

Eppure non c’è stata volta in cui durante quel tragitto - dal locale, dalla redazione, dalla fermata del bus, a casa - non mi sia guardata alle spalle, non abbia avuto paura delle ombre, delle scarpe sull’asfalto, dei fruscii. In cui non abbia accelerato il passo, sentito il battito del cuore rimbalzare più forte che mai nel petto e il fiato cortissimo, in cui non abbia tremato tirando fuori dalla borsa la chiave del portone, respirato a pieni polmoni quando me lo sono chiuso finalmente alle spalle. Ci ho ripensato, a tutto questo, leggendo le tue parole asciutte e terribili, ripercorrendo la tua paura e il tuo dolore, immaginando le tue ferite. Ho ripensato a tutte le volte in cui anche tu avrai detto: «Vado da sola, ci mancherebbe, che problema c’è?».

E del resto se vivessimo pensando a quello che può succederci, semplicemente, non vivremmo. Resteremmo chiuse in casa, usciremmo solo accompagnate da un fratello o da un padre o da un fidanzato o da un marito. Come succedeva una volta, barbaramente, come in certi luoghi succede ancora: quando la scusa della protezione diventa una prigione, quando la violenza altrui incatena noi. E con noi i nostri vestiti, le nostre abitudini, i nostri sguardi, le strade che possiamo o non possiamo percorrere, gli orari che possiamo o non possiamo fare. Un’esistenza in libertà vigilata. Quando si è vittime, si corre sempre il rischio di sentirsi un po’ colpevoli, perché la prima cosa a cui si pensa è: come avrei potuto evitare tutto questo? E se non ci si pensa da soli, sono gli altri che trovano prima o poi il modo di farcelo pensare.

Per questo ti ringrazio: raccontare il dolore, la paura, la violenza può diventare a sua volta una violenza. Il dolore è sempre sacro, e per condividerlo serve una forza non comune: parlare del proprio dolore lascia addosso il timore di non essere compresi, accettati, amati come prima, lascia addosso la sensazione che nessuno potrà mai davvero capire che cosa fino in fondo hai provato, quali tracce sono rimaste su di te. Ma è da un coraggio come il tuo, cara amica, che tante altre donne oggi possono sentirsi un po’ meno sole. E questo nei giorni che verranno, e che saranno durissimi, non devi dimenticarlo mai.

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