Brand e concept? Adesso basta. "Niente inglese, siamo italiani"

La pubblicitaria Annamaria Testa, che ha lanciato la petizione #dilloinitaliano, si rivolge all'Accademia della Crusca, la quale condivide e parlerà di questo tema durante un convegno il 23 e 24 febbraio

L'Accademia della Crusca

L'Accademia della Crusca

20 febbraio 2015 - UNA CROCIATA contro le lingue straniere? «Certamente no». Un appello pacifico e gentile al buonsenso, per limitare l’impiego esagerato di termini inglesi – da meeting (riunione) a brand (marca), da concept (idea, concetto) a location (posto, luogo, sede) – «che hanno corrispondenti italiani efficaci e accettati». Parola di Annamaria Testa, esperta di comunicazione e docente universitaria, ma anche pubblicitaria di quarantennale esperienza, che della lingua italiana ha fatto lo strumento del suo successo e ora si è fatta motore di un diffuso senso di fastidio nei confronti dell’itanglese.

Secondo una ricerca di Federlingue l’uso di parole anglosassoni è aumentato del 773% negli ultimi otto anni: è allarme?

«Diciamo che è malcostume: dettato da provincialismo, conformismo e scarsa conoscenza delle lingue straniere, utilizzate da molti come ‘abracadabra’, magari per sembrare quel che non si è. Fino al paradosso».

Tipo? «Passare davanti a un bar e sentir dire: ‘Ok, ci vediamo questo weekend per un drink after dinner’, oppure sentir annunciare in televisione che ‘il Nazareno è la location scelta da Renzi per incontrare Berlusconi’. Solo per rendere l’idea».

Da qui la petizione #dilloinitaliano per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più nella nostra lingua madre?

«In realtà non si tratta di un fastidio recente: è dal 2000, anno in cui ho pubblicato ‘Farsi capire’, che mi occupo del problema, spinta da un bisogno condiviso». La prova? «Dopo 48 ore dal lancio della petizione sul portale Change.org, hanno aderito 25mila persone».

Nella petizione si rivolge direttamente alla blasonata Accademia della Crusca: perché?

«È giusto che venga avviato un confronto tra istituzioni, e la Crusca è quella preposta alla salvaguardia della lingua: alla Crusca chiediamo di farsi portavoce e autorevole testimone di questa istanza, forte del nostro sostegno. E di farlo ricordando alcune ragioni per cui scegliere termini italiani che esistono e sono in uso».

Una scelta virtuosa, che aiuta a farsi capire da tutti.

«E a rende i discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di democrazia: si pensi a termini medici, legali, economici abusati, che in pochi capiscono».

Al contrario, esistono forestierismi insostituibili?

«Certo, nessuna esagerazione, non si tratta di affermare concetti nostalgici o battersi per la purezza della lingua: termini come computer, tram, spleen, il tedesco blitz... ed è giusto continuare a utilizzare. Altri sono superflui, come ticket e altre 299 parole che possiamo dire in italiano, consultabili sul sito nuovoeutile.it».

Obiettivo? «Trovare alternative realistiche ai forestierismi superflui. E suggerire che qualche volta si può, senza far troppa fatica, dire in italiano quel che, magari per abitudine o pigrizia, si dice in inglese».

Qualche esempio? «Brand è la marca (non il marchio), flop è il fiasco e sponsor (che tra l’altro viene dal latino spondere) è il finanziatore: la lista gira in rete e ha raccolto 25mila ‘mi piace’».

Niente di personale contro l’inglese...

«Certamente no, lo parlo e lo conosco. Essere bilingui è un vantaggio, ma non significa infarcire di termini inglesi un discorso italiano. In un Paese che parla poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del problema. Il tema è sul tavolo. La Crusca, sulla sua pagina Facebook, ha già scritto che condivide le ragioni della petizione. Ne parleremo al convegno ‘La lingua italiana e gli anglicismi’, il 23 e 24 febbraio».

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