Le bombe, la foto e i misteri: Georgofili, 29 anni dopo s'indaga ancora

La mafia dietro l'attentato del 1993 a Firenze che costò la vita a cinque persone tra cui due bambine

Firenze, 26 maggio 2022 - Ventinove anni. Sono passati ventinove anni da quella notte di maggio del 1993. Quando lo smarrimento lasciò presto il posto a un'aberrante certezza: c'era la mafia dietro al Fiorino carico di tritolo piazzato in via dei Georgofili e i cinque morti   i coniugi Fabrizio Nencioni (39 anni) e Angela Fiume (31 anni) con le loro figlie Nadia (9 anni) e Caterina (50 giorni di vita) e lo studente Dario Capolicchio (22 anni) - e gli ingenti danni agli Uffizi sono stati il prezzo che anche Firenze, con Milano e Roma, ha pagato per quell'offensiva allo Stato.

Ma il perché di quell'attacco, chi lo abbia voluto, indotto, o suggerito agli esecutori materiali (il clan palermitano di Corso dei Mille, secondo i processi celebrati all'aula bunker e le relative sentenze), non è ancora chiaro. E a ventinove anni di distanza dalla strage dei Georgofili, la procura di Firenze indaga ancora.

E' l'inchiesta sulle stragi. E' un fascicolo ancora quasi completamente coperto dal segreto istruttorio, ma qualche carta è stata svelata. Verbali di oggi, fitti di omissis, si intrecciano con le informative del passato di un'indagine perennemente aperta. I pm Giuseppe Creazzo, Luca Turco e Luca Tescaroli sono eredi e custodi di atti compiuti dai loro predecessori, Gabriele Chelazzi (scomparso improvvisamente nell'aprile del 2003), Giuseppe Quattrocchi, Francesco Fleury, Giuseppe Nicolosi, Alessandro Crini. 

La donna e l’autobomba

L’ultima, clamorosa evoluzione dell’inchiesta fiorentina riguarda il coinvolgimento, nella fase esecutiva degli attentati, di soggetti esterni alla mafia. In questa direzione, vanno le dichiarazioni rese dal pentito Pietro Riggio al processo “’ndrangheta stragista” celebrato a Reggio Calabria – che ha riferito di un presunto coinvolgimento di appartenenti ai Servizi deviati negli attentati di Capaci e via dell’Amelio -, e si inserisce in questo sentiero anche l’ultimo sviluppo investigativo ancora in corso. 

Rosa Belotti, da Albano Sant’Alessandro, Bergamo, 56 anni, sarebbe, secondo i pm fiorentini, la “biondina” che un passante notò, per la sua avvenenza, scendere da una Fiat Uno parcheggiata in via Palestro: poco dopo, in quel 27 luglio 1993, Milano pianse cinque morti causati proprio da un'autobomba. 

Due mesi avanti, la sera del 26 maggio, una donna era stata notata pochi minuti prima dell’esplosione di via dei Georgofili. Fu un residente di via dei Bardi, Vincenzo Barreca, a raccontare ai carabinieri di aver visto una mora arrivare in Mercedes, discutere con due persone, prendere una valigia e ripartire, seguita da un Fiorino bianco. Da quell'avvistamento, nacque anche un identikit, il secondo femminile dopo la “biondina” autista di via Palestro. 

La Belotti, interrogata dopo essere stata perquisita, nel marzo scorso, ha negato ogni suo coinvolgimento, a Milano e a Firenze, ma ha ammesso che è effettivamente lei, in una foto che venne trovata in un misterioso arsenale in una villa di Alcamo. 

L'arsenale di Alcamo e la foto

 E qui si entra in una sorta di rompicapo. Perché quella foto di una giovane e bionda Belotti, mostrata per la prima volta dalla trasmissione Report, spuntò, nel settembre del 1993, tra armi che sembrano appartenere ad un’organizzazione simile a Gladio custodie da due carabinieri. A quel sequestro, gli inquirenti arrivarono grazie al poliziotto Antonio Federico, che a sua volta era stato destinatario di una soffiata da una sua fonte molto informata. Il misterioso confidente suggerì a Federico di sfogliare anche i volumi di un'enciclopedia. Tra le pagine, c'era appunto l'immagine di quel volto femminile, che però, in quel momento non era collegato o collegabile alle stragi che si stavano consumando e solo oggi a quella foto è associato un nome. Ma non definitivamente un perché. 

I dubbi, a quasi trent'anni di quella stagione di nuova strategia della tensione, sono duri da dissipare. Neanche i pentiti parlano mai di una donna nella batteria delle stragi. Riferiscono invece di mandanti e manovre, a cavallo tra Mani Pulite e l'avvento di Forza Italia, per indirizzare con il sangue di innocenti la politica del Paese. Affermazioni che sono ancora tutte da dimostrare e che non hanno trovato riscontri oggettivi.

 

Georgofili, "il perché della strage è ancora un mistero"

 

Riferisce Graviano

Giuseppe Graviano, “madre natura”, figlio del boss Michele assassinato nel 1982, è tra i condannati per la strage dei Georgofili. Tra il 2016 e il 2017, durante l’ora d’aria nel carcere di Ascoli Piceno, venne intercettato dmentre parlava con il compagno di cella Umberto Adinolfi. I discorsi sembrano riferiti al periodo antecedente alle stragi del 1993 e a un prestito da venti miliardi che alcuni siciliani, tra cui suo nonno, avrebbero elargito a un imprenditore milanese in ascesa, oggi pure lui nuovamente indagato a Firenze dopo le archiviazioni del passato: Silvio Berlusconi. I cui difensori hanno sempre argomentato sulla totale inaffidabilità del mafioso.

“In più occasioni – si legge in una nota della Dia di Firenze – Giuseppe Graviano ha fatto riferimento ad un accordo sottoscritto da suo nonno e altre persone siciliane, con Silvio Berlusconi”. Tali affermazioni, Graviano le ha rese sia al processo “'ndrangheta stragista”, dove è stato sentito come testimone, sia in due interrogatori dinanzi ai magistrati fiorentini. In particolare, nella prima verbalizzazione del 21 novembre 2020, riassumono gli inquirenti, “è stato nuovamente affrontato il tema delle partecipazioni nelle aziende di Silvio Berlusconi da parte del nonno del detenuto e di tutte le altre persone che lo stesso cita come apportatori di quote consistenti di capitali liquidi”.

“Le partecipazioni – dicono ancora gli investigatori dell'Antimafia – si erano originate quando ancora era in vita il nonno, Filippo Quartararo, e che, a dire di Graviano, dovevano permettere un ritorno del 20% sulla cifra investita nella attività imprenditoriali di Berlusconi. L'accordo, formalizzato per iscritto, prevedeva, infatti, che a fronte della somma erogata dalla compagine siciliana, Berlusconi avrebbe dovuto corrispondere interessi elevati”.

Qui il verbale s'interrompe per uno dei tanti omissis. Ma la caccia alla scrittura che sancirebbe il prestito da 20 miliardi e al luogo di un paio di incontri tra Graviano e Berlusconi, è in corso. Il 27 ottobre scorso, sono stati perquisiti Nunzia e Benedetto, sorella e fratello di “madre natura”. Ma non solo. Confrontando le piante catastali di uno degli appartamenti in uso alla moglie di Graviano, a Palermo, gli uomini della Dia si sono accorti che era stato creato un anfratto segreto coperto da un muro. Quella stanza, però, è risultata vuota. 

Una tegola su questi atti d'indagine è arrivata però dalla Cassazione. In accoglimento di un'istanza che era stata invece rigettata dal tribunale del Riesame di Firenze, presentata dal legale dei fratelli di Graviano, l'avvocato Mario Murano, i sequestri di telefoni e computer a persone non indagati sono stati giudicati illegittimi. “Questo ci permette finalmente di cominciare a discutere di diritto e, al contempo, fornisce un segnale importante che lascia sperare che si vada verso l'abbandono delle astruse teorie indagatorie della Procura della Repubblica di Firenze”, chiosa l'avvocato Murano.

I legali di Berlusconi hanno sempre definito Graviano inattendibile, e nessun riscontro è stato mai trovato a conforto di queste affermazioni.

Ancora Spatuzza

Gaspare Spatuzza è il killer della mafia, membro del gruppo di fuoco che ha agito anche ai Georgofili, pentitosi nel 2008. Riferì che in un incontro al bar Doney a Roma, un “euforico” Giuseppe Graviano diede “il via all'esecuzione dell'attentato”: “Gli dobbiamo dare il colpo di grazia”, gli avrebbe detto. 

Il 24 settembre 2020, i pm Turco e Tescaroli lo hanno nuovamente sentito: in quell'incontro, ha riferito dei rapporti tra “madre natura” e Dell'Utri, iniziati, secondo Spatuzza, “nel periodo temporale in cui sono avvenute le vicende dei cartelloni pubblicitari e della Standa di Brancaccio, di cui ho ripetutamente parlato, che colloco in epoca antecedente all'arresto di Giovanni Drago avvenuto l'8 marzo 1990”. 

Riguardo agli obiettivi degli attentati, il pentito dichiara che ad indicarli furono Graviano, Matteo Messina Denaro e “marginalmente” Ciccio Tagliavia “in un incontro che si è tenuto a Santa Flavia”.

Spatuzza parla anche del fallito attentato allo stadio Olimpico. “A Campo Felice di Roccella Graviano disse a me ed a Cosimo Lo Nigro che bisognava lavorare ad un progetto esecutivo di uccisione di un bel po' di carabinieri a Roma. Fu in questa occasione che io dissi, come ho già riferito, 'ci stiamo portando dietro dei morti che non ci appartengono' facendo riferimento alle vittime della strage di via dei Georgofili. A quel punto Graviano, come per dare una risposta alla mia osservazione, ci domandò se capivamo di politica, noi rispondemmo di no e lui disse che serviva portarci dietro un po' di morti così si 'davano una scossa', aggiunse che c'era in piedi una cosa che se andava a buon fine ne avremmo tratto dei benefici, anche per i carcerati”.

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