
Jenny Saville e Sergio Risaliti
Firenze, 30 settembre 2021 - Jenny Saville ha portato le sue opere in tanti luoghi della città. Ma uno in particolare le è rimasto nel cuore: Casa Buonarroti. Ci spiega perché è stato così emozionante? "Perché ‘dialogare’ con Michelangelo è stato meraviglioso. L’ho sempre considerato il più grande maestro, capace di esprimere l’arte al massimo. Non nascondo l’apprensione, il timore di confrontarmi con le sue opere. E più volte mi sono chiesta se ne sarei stata capace. Ecco, adesso sento che lui fa parte di me stessa, è dentro di me". Ora posso dire che se Lei ha preparato molte opere site specific. Com’è stato complessivamente lavorare a Firenze? "L’esperienza a Firenze è stata bellissima. Tutte le persone con le quali ho lavorato mi hanno fatto rendere conto, ancora una volta, di quanto gli italiani siano un grande popolo". Come è iniziata l’avventura? "Ha avuto inizio a Venezia, quando ho incontrato Sergio Risaliti, che mi ha invitato a venire a Firenze. Io c’ero stata da adolescente con mio zio, artista e storico dell’arte. È stato grazie a lui che ebbi questa visione dell’arte". La sua pittura è potente, esprime energia ma anche sofferenza. Cosa è accaduto alle donne che dipinge? "In realtà io sono molto ottimista. Ma penso che la sofferenza faccia parte della vita. Del resto, un artista deve saper rappresentare l’arco più vasto possibile delle emozioni umane. Questa, ad esempio, è stata una delle grandi capacità proprio di Michelangelo". Nella sua arte la maternità è un tema centrale. "Sì, è vero. Per lo più sono stati artisti uomini a rappresentare la maternità attraverso i secoli. Io l’ho affrontata dall’interno, raccontato qualcosa che ho vissuto nel mio corpo. Insomma, io non ho solo dipinto la carne, ma l’ho creata". Quali sono gli altri temi più ricorrenti della sua pittura? "Sesso, morte, nascita, che emergono in diversi momenti della mia vita. Credo di poter dire che la mia arte e la mia vita siano una sorta di diario umano". Come ha vissuto il periodo della pandemia? "L’opera esposta nel Salone dei Cinquecento è stata ispirata dal periodo di lockdown e parla della nostra vulnerabilità. Ed è un’occasione per riflettere sulla nostra umanità, sull’essere stati umanamente tutti uguali di fronte alla pandemia".