Artificiere morì nel rogo in caserma. Sette indagati, c’è anche l'ex questore

Chiusa l’inchiesta sulla morte alla "Fadini" dell’artificiere Giovanni Politi. "Il datore di lavoro non valutò il rischio e non elaborò misure di protezione"

Il fuoco e l'esplosione

Il fuoco e l'esplosione

Firenze, 22 gennaio 2020 - Sono sette gli indagati per la morte nello scoppio alla caserma Fadini, in cui morì, il 25 febbraio del 2018, l’artificiere di 51 anni Giovanni Politi.

Nella chiusura delle indagini che il pubblico ministero Fabio Di Vizio ha notificato in questi giorni, c’è anche il "datore di lavoro" dell’agente di polizia morto carbonizzato nell’incendio che divampò nella stanza 55. E cioè l’ex questore di Firenze, oggi prefetto ad Imperia, Alberto Intini.

E’ lui, dunque, la figura che secondo la ricostruzione della procura, è posta al vertice della piramide delle responsabilità che mancò "di effettuare una corretta valutazione del rischio" e di "elaborare adeguate misure di prevenzione e protezione". E’ stata un’indagine articolata, quella della procura fiorentina. Partita da una perizia, firmata dall’esperto balistico Paride Minervini, che ha ricostruito nei dettagli cosa successe quella domenica: Politi, che aveva l’hobby del modellismo, stava lavorando con la smerigliatrice e la morsa.

Le scintille innescarono del materiale presente sul bancone da lavoro, l’esplosione che seguì proiettò l’artificiere verso il muro alle sue spalle. Fiamme e calore innescarono altro materiale pirotecnico accatastato nella stanza 55. Il fuoco raggiunse infine l’armadietto dove erano stipate altre "bombe". In questo inferno, deflagrarono anche gli elementi del termosifone. Politi morì carbonizzato. Ma tutto il materiale presente in quel locale, secondo le conclusioni del pm Di Vizio, lì non doveva starci. E così la procura ha individuato una catena di responsabilità che inizia dai colleghi artificieri, passa per il coordinatore del nucleo ed i responsabili del servizio di prevenzione e protezione della questura, sale fino al dirigente dell’ufficio da cui dipendono gli artificieri e raggiunge appunto il questore dell’epoca.

I sette indagati, ognuno nel proprio ruolo, con condotte colpose, avrebbero contribuito "in termini attivi e omettendo contegni e cautele prevenzionali doverose e con attitudine impeditiva dell’infortunio mortale", "a creare e comunque a favorire il mantenimento all’interno della stanza 55 dell’accumulo irregolare di materiali esplodenti, fuochi pirotecnici nautici, munizioni, polvere pirica e altri esplosivi".

Era una stanza, hanno stabilito ancora le indagini, dell’ampiezza di 80 metri quadri, priva di impianto antincendio e di armadi atti alla custodia di materiali destinati alla distruzione, "parcheggiati" abusivamente in un posto che non garantiva la sicurezza degli operatori e a nche di altri utenti della Fadini.

Come dimostra la tragedia costata la vita del poliziotto, c’era dunque un arsenale pericolosissimo. In cui l’artificiere (con spregiudicatezza, va detto), dopo aver staccato dal servizio allo stadio Franchi si trattenne a coltivare il suo hobby di costruire modellini, pratica per la quale era stato soltanto bonariamente invitato a desistere. Gli indagati hanno facoltà di depositare memorie difensive o di farsi interrogare, allo scopo di convincere il pubblico ministero a non compiere il successivo passo del cammino processuale: la richiesta di rinvio a giudizio.

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