La disperazione dietro le sbarre

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Lì vivono gli invisibili, quelle persone per le quali è difficile dare un senso alla vita. I reclusi stanno lì dentro perché l’ordinamento deve proteggere chi sta fuori. Ma questa reclusione non è fine a se stessa nei principi della nostra convivenza civile. Il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Sono due capisaldi. Ci chiediamo dunque se nelle carceri italiane, se a Sollicciano il senso di umanità sia rispettato, ovvero se il detenuto non sia afflitto da una pena che si cumula con la pena prevista dal Codice: la pena che deriva dal sovraffollamento delle celle, dal freddo d’inverno e dal caldo insopportabile d’estate, dall’esposizione continua al sopruso e alla violenza del più forte. E ci chiediamo anche, ma è una domanda del tutto retorica, se la rieducazione del condannato possa essere perseguita a queste condizioni. È facile e comodo dimenticare questa umanità dolente. Ma siamo nel torto. Anche quegli uomini e quelle donne sono parte della nostra umanità. Sono persone cui dobbiamo garantire un percorso di inclusione. Hanno portato dei torti, a volte gravissimi e irreparabili, alla società civile. Ma come non è ammessa la tortura nel nostro ordinamento, non è neppure ammesso che essa sia surrettiziamente reintrodotta nei luoghi di pena. Perché un numero così alto di suicidi o di tentati tali: mille su meno di 60mila detenuti dicono una scomoda verità. Ossia che le carceri non sono pensate per applicare il dettato costituzionale. Per esperienza diretta ho conosciuto detenuti che vedevano nello studio e nel percorso universitario la salvezza dalla disperazione. Altri la cercavano nel lavoro dentro il carcere, o nell’organizzare una performance teatrale. Come tutti noi, gli invisibili di Sollicciano hanno bisogno di dare un senso alla vita. Se questo manca, si apre l’abisso.

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