Il nuovo Franchi è funzionale Ma il bello?

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Stefano

Cecchi

Continua a non convincermi ma nella sostanza è un capolavoro. Il restyling dello stadio Franchi sta procedendo secondo i tempi non snelli stabiliti dalla burocrazia e, se non ci saranno intoppi, esattamente fra un anno dovrebbe partire il cantiere e i conseguenti lavori. Qualcosa di buono per la città, se vuol provare ad agganciare un piccolo pezzo del suo futuro e non buttarlo via come già ha fatto in cento altre occasioni. Eppure, ogni volta che guardo il tettoione rettangolare che caratterizza il progetto dello studio Arup, mi piovono addosso mille perplessità. E’ vero, di tutti i progetti presentati quello che ha vinto è il meno impattante con le linee architettoniche della città. Gli altri, con le loro astronavi futuriste che si impennavano nel cielo di Campo di Marte, rischiavano di stravolgere lo skyline fiorentino più di quanto non abbia fatto il palazzo di giustizia a Novoli. Lo stesso, quell’enorme lamierone pensato a coprire la struttura non incendia la fantasia ma rimanda più all’idea del tappo messo a chiudere il tutto sotto la spinta della funzionalità più che dell’estetica. Così come sollevano perplessità le nuove curve che non si collegano con il resto dello stadio, lasciando un vuoto fra loro e la tribuna e dando l’idea che anche in questo caso la necessità abbia prevalso sul preferibile. Eppure, nonostante tutto ciò, continuo a pensare che lo studio Arup abbia compiuto un piccolo capolavoro. Perché obbligare tutti i progettisti a pensare il nuovo senza poter toccare il vecchio è stata una sorta di forca caudina architettonica. Come se a suo tempo ad Arnolfo di Cambio che progettava Santa Maria del Fiore avessero detto: "Mi raccomando, non toccare nulla di Santa Reparata". E se per Santa Reparata l’indicazione poteva avere un senso, davvero oggi ha avuto un senso l’aver tenuto su il cemento anonimo delle vecchie curve Fiesole e Ferrovia? Ma questo, come sappiamo, è il prezzo che si è dovuto pagare ai burocrati statali della soprintendenza, indisponibili a ogni progetto che toccasse minimamente lo status quo. Lasciandoci per l’ennesima volta con il dilemma se questo sia davvero il modo giusto per costruire un futuro migliore della città o se non sia solo il capriccio da travet di chi, più che difendere il bello, sembra voler difendere il privilegio di avere l’ultimo timbro sul bello.

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