Il giornale al fianco della città ferita

Gabriele

Canè

Dalla terrazza di una famiglia di amici in piazza dell’Indipendenza si sentì un colpo sordo. Non di un aereo. Troppo basso. Il pavimento tremò. Firenze tremò. Anche di paura. La notte dei Georgofili tutte le luci della città restarono accese. Pure nelle strade del centro avvolte da una nebbia strana: la polvere di quel palazzo sventrato. La gente correva in via Calzaiuoli, avanti e indietro. Senza sapere dove era meglio fuggire. Troppo tardi. La tragedia si era già consumata, e tutti, la mattina dopo, qui e nel mondo, seppero cosa erano i Georgofili. Alla Nazione arrivarono tutti, giornalisti, tipografi, spedizionieri, senza bisogno di una telefonata di un richiamo. I vigili del fuoco scavavano, e i nostri cronisti pure. Perché? Perché lì? La cultura, gli Uffizi, il simbolo: un messaggio crudele e spaventoso. Perché quella notte, perché Firenze? Non c’era tempo di pensare. Una edizione straordinaria, e poi quelle ordinarie. Il giornale a fianco, dentro la sua città ferita, come per l’alluvione. Nessun messaggio, nessuna rivendicazione. La mano non poteva che essere quella della mafia. Il 23 maggio dell’anno prima c’era stata Capaci. Falcone, la moglie, la scorta. Poi Borsellino. Cosa nostra era diventata veramente nostra: sulla nostra pelle. Riina era appena finito in galera. Ma il pizzino per la bomba di Firenze era già partito. Missione compiuta. La rotativa girava in viale Giovine Italia, e nessuno si alzava dal suo posto. A testa bassa. Pagine di cronaca piene di storia. Messina Denaro era un ragazzo. Un giovane assassino. Il suo nome non finì sul giornale. Quello delle cinque vittime sì. Ieri è finita la festa anche per lui, il capo dei capi. La ferita dei Georgofili è rimarginata. Quasi. La nostra edizione si chiude. Almeno per oggi.

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