I reportage de La Nazione. Osmannoro, la fabbrica dello sfruttamento / VIDEO

Viaggio nei capannoni-lager fra bimbi, rifiuti e migranti. Ecco cosa abbiamo scoperto

Osmannoro, fabbrica cinese

Osmannoro, fabbrica cinese

Firenze, 17 ottobre 2018 - Arrivano da Senegal, dal Pakistan o dalla Nigeria. Lo status è quello di migranti, i più deboli e facilmente ricattabili. Sono a gruppi di quattro, al massimo cinque. Qualcuno arriva in bici, altri a piedi. Pochi, scendono dalla linea 30 che ferma nel cuore della Chinatown fiorentina, all’Osmannoro: migliaia di metri quadri di capannoni più volte visitati da finanza, ispettori del lavoro, polizia e carabinieri. La scena è raccapricciante e a grandi linee ricorda quanto avviene nelle campagne del Sud Italia dove centinaia di braccianti ogni giorno sono alla mercé di caporali. Nelle confezioni cinesi dell’Osmannoro, invece, ci troviamo di fronte ad una nuova frontiera di sfruttamento: la manodopera africana arriva tramite passaparola di qualcuno che ci lavora o ci ha lavorato.

La maggiore presenza di altre etnie nelle imprese a mandorla è dovuta a un minore flusso di operai a basso costo dalla Cina. E, i migranti si sa, accettano anche di lavorare sette giorni su sette per un salario da fame. «Guadagno 30 euro, lavoro anche 12 ore» racconta un ragazzone senegalese, ospite di un struttura di accoglienza nella zona di Pontedera. Calcolatrice alla mano: 2.50 l’ora. Siamo entrati con telecamera nascosta all’interno delle confezioni cinesi accompagnati dal deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli. Davanti ai nostri occhi un altro mondo: stanzoni bui con macchine per cucire, gomitoloni di filo, pelle e centinaia di borse ma anche arnesi da taglio proprio vicino ai passeggini dei bambini che passano le proprie giornate senza mai vedere la luce. Fino a quando non avranno l’altezza per usare le macchine. Ma ci sono anche buste col cibo, carni e verdure a essiccare all’esterno e decine e decine di sacchi neri pieni di scarti tessili.

«Le aziende italiane – dice Donzelli – hanno oneri economici e burocratici per lo smaltimento, qui ognuno si sente autorizzato a fare quello che gli pare». Eppure ogni capo partorito da questa filiera dell’illegalità può sfoggiare l’etichetta Made in Italy. Ne abbiamo visitati una quindicina, 13 all’Osmannoro e 2 nella zona di Quaracchi e quello che salta all’occhio è la massiccia presenza di persone africane. Parlarci è difficile: quando qualcuno prova a rispondere alle nostre domande viene immediatamente messo a tacere dai boss cinesi. Fuori da uno dei tanti capannoni, fermiamo un ragazzo in attesa che qualcuno lo recluti per la giornata. «Ho esperienza, ho lavorato a giornata un po’ ovunque qui». E quando gli chiediamo se ha degli amici da portare senza pensarci dice: «Domani mattina ci trovate qui». Tanti gli imprenditori rovinati da questa concorrenza sleale. Di sicuro, esistono ditte orientali modello che operano nelle regole ma sono ancora troppe quelle che restano nella zona d’ombra. Quello che fa più male sono i minori che giocano e danno una mano nelle imprese di famiglia. «Mi sono alzato col mal di testa – sgrana gli occhi un bimbo di 12 anni – sto dando una mano ai miei genitori». Eppure sono le 11: la campanella di scuola è già suonata.

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