Morì con la fidanzata nel crollo del ponte Morandi: «Semplice e vero, Alberto era così»

I genitori Franco e Daniela ricordano il figlio, che fu inghiottito in quel giorno di tragedia

Alberto Fanfani e la fidanzata Marta: entrambi sono morti nel crollo del ponte Morandi

Alberto Fanfani e la fidanzata Marta: entrambi sono morti nel crollo del ponte Morandi

Firenze, 13 agosto 2019 - Le vite di una volta, figlie di piccoli mondi antichi che ancora qua e là annidati si nascondono, solidi come capsule preziose, da questi tempi feroci e sbagliati sono quelle che, in fondo, restano. Restano per sempre. Anche dopo che la morte, a braccetto con il destino, ha fatto il suo gioco sporco. Quindi Alberto vive ancora, negli occhi e nel cuore del babbo Franco e della mamma Daniela.

«È con me in ogni parola, in ogni gesto, come potrebbe essere diversamente?» dice il signor Fanfani con la voce spezzata dai singhiozzi eppure carica di una dignità pulita e giusta.

Un anno fa a Genova, in una mattina di mezz’estate gonfia di pioggia e di spaventoso vento che rombava dal mare nero, le ginocchia di cemento del ponte Morandi si sbriciolarono come un biscotto e la pancia della città inghiottì macchine e vite in una pasta maledetta di fango, sangue e lamiere.

Alberto volò giù con Marta, quella ragazza dolce che aveva il sorriso raggiante della sua Sicilia a disegnarle un viso pieno d’amore. Si sarebbero sposati quest’anno, in maggio. Lui 32 anni, lei 29. Lui medico specializzando, lei infermiera. Un amore forte e cristallino, nato nelle corsie dell’ospedale Cisanello di Pisa, città che avevano scelto per dirsi sì. Giovani, belli, buoni, solidi.

Le vite di una volta, si diceva. Quelle che avevano dei traguardi. «Mio figlio li aveva quasi raggiunti i suoi, fare il medico e sposarsi con Marta, – dice ancora babbo Franco al telefono dalla sua casa del Bandino, a Gavinana – però poi ci si è messo di mezzo il ponte e Alberto non ha fatto in tempo a tagliarli».

«Era un ragazzo esemplare, semplice e a me sembrava quasi impossibile, in tempi come quelli di oggi, che fosse venuto su così educato e serio» continua Franco che si sforza di parlare, tra i singhiozzi, e ripete come un mantra che suo figlio era «proprio bravo, era un ragazzo bravo».

No, non è impossibile crescere così – ci permettiamo di dire – quando lo stampo è buono, quando la famiglia è così: schiva, gentile, refrattaria agli svolazzi. La mamma Daniela prende la cornetta e dice una cosa sola, semplice e devastante: «Abbiamo scelto di parlare, dopo un anno dalla tragedia, perché volevamo dire solo una cosa. Me lo faccia dire che non è giusto quello che è successo, che quelle 43 persone morte a Genova non avevano fatto nulla di male. Erano solo in viaggio in macchina».

Alberto, quel giorno, stava accompagnando Marta ad Alessandria, dove la ragazza aveva trovato un impiego nell’ospedale locale dopo aver vinto un concorso. Poi quel baratro si spalancò sulle loro vite. Per Franco, ex bancario in pensione, da sempre volontario alla Misericordia di Badia dove tutti ricordano suo figlio, da piccolo, come un bambino tranquillo e gentile, e per la signora Daniela quel telefono che squillò a vuoto per ore, prima della tragica verità, resterà per sempre il simbolo di quanto il destino possa essere cieco e cattivo.

Non andranno a Genova domani per le commemorazioni ufficiali. Un motivo vero, in fondo, non c’è. O forse sì, come si diceva. Forse sta ancora in quella semplicità innata, in quella voglia di stare lontani dai riflettori. Sempre, qualsiasi cosa succeda.

«Non volemmo i funerali di Stato l’anno scorso – dice Franco – perché che senso aveva andare là a Genova, pensai. Io volevo riportare mio figlio qui, a Firenze, nella sua chiesa dov’è stato battezzato, dov’ècresciuto». È tempo di attaccare il telefono ora. Il dolore ha i suoi ritmi, le sue parole. E la nostra, a un anno dalla tragedia, sarà un semplice ‘ciao’. Ciao Alberto, ragazzo di Badia.

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