Arte o provocazione? Firenze, la mostra di Marina Abramovic divide il pubblico / VOTA

L’evento a Palazzo Strozzi di Firenze anima subito il dibattito. Non solo tra gli esperti

Marina Abramovic (New Press Photo)

Marina Abramovic (New Press Photo)

Firenze, 21 settembre 2018 - Un giovane intento a pulire le ossa di uno scheletro. Un ragazzo e una ragazza nudi, appoggiati agli stipiti di una porta, che devono sopportare le persone che passano in mezzo ai loro corpi, strusciando inevitabilmente sui loro genitali. E ancora, il video di una distinta signora che subisce immobile alcuni serpenti che le si acciambellano sulla testa e le strisciano sul viso.

 

O peggio, sempre lei, questa donna magnetica di età indefinita, che con un coltello trafigge lo spazio fra dito e dito; o che lascia in maniera ascetica che il fuoco di una candela le attraversi la mano. Possibile che tutto ciò sia arte? Sì, se la protagonista è Marina Abramovic. Da ieri l’artista serba è sbarcata come un ciclone a Palazzo Strozzi a Firenze, per la sua prima vera retrospettiva italiana. E anche se il suo fenomeno è ormai “storicizzato” e catalogato sui libri di storia dell’arte, resta lo sconcerto di una parte del pubblico di fronte ad alcune performance. Cosa c’entra tutto ciò con le pur numerose e ormai differenti forme d’arte del nostro tempo? Il senso di questa apparente provocazione lo spiegano alcuni “addetti ai lavori” che, se pur con sfumature differenti, su un punto sono d’accordo: Marina Abramovic è certamente un’artista.

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«Lei indica il primato del corpo come strumento di espressione estetica – spiega Vittorio Sgarbi – Anche io sono “passato” attraverso di lei durante la performance che fece nel ’72 a Bologna col suo compagno Ulay, nuda, ai lati di una porta. E per quanto ami la pittura, è difficile non riconoscere a Marina una grande coerenza, tanto che le sue performance sono già un classico. Del resto con le sue opere corre attraverso il Novecento e lo scavalca. Non c’è dubbio che il suo sia un fenomeno impegnativo e coinvolgente. Usa il corpo non come pretesto ma come protagonista. Sono stato felice di difenderla recentemente nella polemica con la Lega per il suo manifesto per la Barcolana di Trieste, dove aveva scritto “Siamo tutti sulla stessa barca”. Come non darle ragione».

Qualcosa da obiettare in quel caso l’ha avuta Luca Beatrice, che però ne ammette il valore artistico: «Le riconosco il merito di aver trasformato una cosa trasgressiva come la performance in un linguaggio per il grande pubblico – sostiene –, anche grazie a certe operazioni di marketing, come quella ad esempio con Lady Gaga. Non credo che le sue siano provocazioni, è certamente un’artista sincera anche se furba».

Cristina Acidini parla di un’arte al confine con lo spettacolo dal vivo: «Con lei la materia artistica diventa il corpo e tutto ciò che lo circonda. Il gesto è la vera opera d’arte, in cui mette in gioco la sua persona, anche fisicamente. E’ l’estremo limite di un atteggiamento che già si era visto nella storia dell’arte, da Caravaggio a Salvator Dalì. In più, è come se dal corpo dell’artista vedessimo irradiare una vera e propria aura, che trasforma in circostanza artistica tutto quello che lei fa, subisce, tocca o percorre, come ha fatto con la Grande Muraglia percorsa per intero».

Tomaso Montanari non discute sul valore artistico della Abramovic, anche se non può dimenticare le polemiche dei suoi collaboratori sulla scarsa retribuzione: «Mi sembra una contraddizione, specialmente quando l’arte, come la sua, si propone di svegliare le coscienze».

«Io che con Antognoni e la sua “Poesia del lancio lungo” ho definito arte anche il calcio – sostiene Antonio Natali –, figuriamoci se non ritengo arte quella della Abramovic, che ci mette cuore, testa e tecnica. Quello che tengo poco in considerazione è invece il pubblico, che spesso impazzisce senza avere gli strumenti per giudicare un’espressione come quella di Marina».

Un ricordo personale dell’Abramovic arriva infine da Flavio Caroli, così come riporta anche nel suo libro “Storie di artisti e bastardi: «Eravamo a Kassel per l’edizione di Documenta del ’77 – racconta – e Marina e Ulay stavano facendo una performance in un garage, davanti a un centinaio di persone. Sbattevano la pancia contro una colonna per spostarla. Lei continuò, fino a sanguinare, fino a svenire. Ricordo di aver provato orrore ma anche grande ammirazione. Marina è un’artista in quanto è in cerca dell’identità, si domanda chi siamo, e si chiede quali siano i limiti del nostro corpo e della nostra psiche, limiti che sfuggono continuamente e che lei non smette di inseguire. Per questo l’ammiro».

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