Angelo, l’uomo che sfuggì a Capaci "Noi, i sopravvissuti dimenticati"

A trent’anni dalla strage, il racconto dell’agente superstite: "Quel dramma sarà per sempre nella mia mente"

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di Olga Mugnaini

Trent’anni dopo nulla è sparito di quell’orrore: l’asfalto che esplode, le auto che saltano in aria, le urla, il sangue, la morte.

Il 23 maggio 1992 Angelo Corbo era un giovane agente della scorta di Giovanni Falcone. E quella mattina, a bordo di una Fiat Croma, sull’autostrada per Palermo seguiva con altri due colleghi la macchina del giudice che aveva dichiarato guerra alla mafia. E che la mafia, quello stesso giorno, avrebbe ucciso nella strage di Capaci.

Angelo Corbo, sopravvissuto all’esplosione, decise di continuare a fare il poliziotto. Chiese il trasferimento, prese sua moglie e il figlio di sette mesi, e venne a lavorare a Firenze. Dove è restato. Ma l’incubo di Capaci non lo ha mai abbandonato.

Come passerà questa giornata?

"Sarò a Suvignano in provincia di Siena, nella più grossa tenuta al Nord confiscata alla mafia per un’iniziativa della Fondazione Caponnetto. Abbiamo mille studenti da tutta la Toscana, che si prenderanno per mano per formeranno una scritta: “per non dimenticare“. Una volta quella tenuta era proprietà di Vincenzo Piazza, un prestanome di Provenzano".

Cosa dirà a questi ragazzi?

"Io amo parlare ai giovani. E la prima cosa che dico è che la mafia non è solo quella che immaginiamo, ma è mafia anche i comportamenti di non rispetto verso chi ci sta accanto. Non è un problema solo di alcune regioni, quali la mia che sono siciliano, ma di tutti, perché l’atteggiamento mafioso può essere dentro di noi. Del resto, neppure in Toscana va tutto bene. Suvignano dimostra che loro ci sono".

Cosa ricorda del 23 maggio 1992?

"Tutto, è impossibile dimenticare, quel giorno è perennemente impresso nei miei occhi e nella mia mente".

Secondo lei in trent’anni si sono fatti passi avanti nella verità sulla strage di Capaci?

"Qualche passo in avanti si è fatto, ma anche tanti passi del gambero. Sappiamo chi sono gli esecutori, gli operai che hanno confezionato l’attentato. Ma chi sono i veri mandanti occulti, dello Stato, che hanno chiesto ai vari Riina di mettere in moto questo palcoscenico, quelli non li conosciamo e forse non li conosceremo mai".

C’è chi pensa che la strage di via D’Amelio, con l’uccisione del giudice Borsellino, sia diversa da quella di Capaci.

"Forse lì è più palese la presenza di quella parte corrotta dello Stato. Per il resto lo scopo della mafia era lo stesso: difendere i propri interessi. Perché in quei 57 giorni che separano le due stragi, Borsellino aveva visto, sentito e scoperto tante cose della morte del “fratello“, perché così considerava Falcone, da rappresentare un vero pericolo. E quindi andava eliminato.

Poi c’è stata la strage dei Georgofili, che lei ha vissuto da “fiorentino“.

"Ero arrivato da pochi mesi a Firenze, trasferito da Palermo. Ed è stato come ripiombare in un incubo: ancora una bomba che esplode, ancora famiglie distrutte per un gioco politico".

Come si è sentito in questi anni?

"Dimenticato dalle istituzioni, con una profonda lontananza".

Qualche anno fa ha pubblicato un libro “Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze“ Diple Edizione. Che cosa ha sentito il bisogno di raccontare".

"Prima di tutto la mia scelta di vita nel diventare poliziotto e poi accettare di fare la scorta a Falcone. E poi cosa ha significato diventare un sopravvissuto. Nel libro ho cercato di analizzare gli aspetti umani della strage, le emozioni di quel momento. E poi ho voluto raccontare l’atteggiamento dello Stato verso le vittime".

Lei continua il suo impegno di testimone, partecipando a numerose iniziative.

"Sì, specialmente ora che sono in pensione, sacrifico volentieri il tempo alla mia famiglia- adesso sono anche nonno - per andare nei tanti posti in cui mi invitato: sabato ero in Sicilia, adesso a Suvignano, il 25 maggio sarò a Pistoia, il 27 a Varese, e il 30 a Rovigo...Perchè non si deve dimenticare".

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