Firenze, 27  gennaio 2013 - Paolo Bambagioni (nella foto), vicepresidente della Commissione regionale d’inchiesta (in quota Pd) sul caso-Forteto: è stato un lavoro sconvolgente?
«Molto impegnativo anche sul piano emotivo. Serrato, faticoso. E’ durato sei mesi».
 

Un momento più difficile di altri?
«Più d’uno: tutti i racconti dei ragazzi, oggi uomini e donne. Gli ultimi. I più deboli. Sottratti alle famiglie d’origine e traditi dalle persone che li avevano ricevuti in affidamento. In Commissione hanno trovato il luogo di ascolto che non avevano mai avuto. Eppure c’è chi aveva scritto alla magistratura, ai giornali».
 

 

Il Forteto era una realtà surreale: eppure è andata avanti per decenni. Ma sul perché è potuto accadere neanche la Commissione dà una risposta precisa.
«La relazione, approvata all’unanimità, dà risposte. C’è una precisa responsabilità del Tribunale con i nomi delle persone che hanno svolto la funzione negli anni. Che hanno preso minori in difficoltà per assegnarli a famiglie affidatarie di una Comunità ai cui vertici c’erano persone condannate nell’85 per reati sui minori. All’epoca ci fu chi, tra i giudici, sostenne che la sentenza contro Fiesoli e Goffredi era sbagliata. La verità è che negli anni c’è stata la mitizzazione di certe persone, in un contesto ideologico. Sarebbe bastata la constatazione obbiettiva dei fatti».


Fiesoli tesseva la rete delle relazioni ‘eccellenti’. E perché non vi fu, invece, una rete adeguata di controlli?
«Giusto. Il servizio sociale segnala il bambino che sta male nella famiglia d’origine. Il giudice valuta e glielo toglie. Il primo errore di fondo è qui: la mancanza di requisiti delle famiglie affidatarie. Vero è che si trattava di affidamenti e non di adozioni. Però i criteri di assegnazione devono essere egualmente rigorosi. E ammettiamo pure l’errore iniziale dei servizi sociali in relazione all’affidamento. Ma poi? I controlli? I bambini non sono vuoti a perdere...Abbiamo ascoltato il giudice Laura Laera, attuale presidente del Tribunale dei minorenni, la quale ci ha spiegato di aver riletto molti fascicoli sugli affidi di quegli anni, trovando quasi nulla!»
 

L’istruttoria era scarna?
«Ci si limitava spesso, troppo spesso a scrivere ‘dateci due nomi’, o giù di lì...»
 

E sulle capacità di Fiesoli di intessere rapporti ai più alti livelli politico-istituzionali?
«E’ provata la sua capacità di accreditarsi coi presidenti di Regione, Provincia, con gli assessori competenti. I rapporti con i politici erano ricercati e valorizzati, come forma di autoaccreditamento. E di protezione: visti i nomi altisonanti che circolavano chi avrebbe pensato a che cosa accadeva davvero, là dentro? Quanto al mondo accademico e scientifico, c’è chi ha scritto libri, prefazioni, partecipato a convegni e iniziative. Insomma: era una continua prospettazione del modello-Forteto»
 

In che cosa consisteva?
«La Comunità nasce nel ’75, anni in cui si propugna il superamento della famiglia tradizionale. Fiesoli sostiene che la famiglia è luogo di egoismi, che si vive meglio in modo comunitario, a contatto con la natura. Ecco il sostrato ideologico e la mitizzazione. Occorreva verificare, invece. E poi la continua pressione psicologica cui erano sottoposti i minori: al bando i contatti eterosessuali. Altrimenti c’era una sorta di processo. Fiesoli diceva che il giovane che non seguiva le sue direttive aveva dei problemi e che lui l’avrebbe purificato...Dalle dichiarazioni raccolte emerge una personalità disturbata. Si era creato una comunità a misura sua».
 

La politica ne esce male
«La politica come ricerca di giustizia, per creare condizioni sociali più giuste. Senza sostituirsi alla magistratura».
 

Si salvano in pochi
«Rinaldo Innaco, negli anni Ottanta consigliere regionale aveva un nipote al Forteto. Parlò della situazione, gli fu detto che aveva un concetto di famiglia desueto, da bacchettone... Pieraldo Ciucchi si è attivato in un secondo momento. Poi Fabrizio Mattei, ex sindaco di Prato, uno libero nel manifestare le sue convinzioni. Ricordo le difficoltà per la raccolta delle firme per attivare la Commissione: della mia parte politica ha firmato solo lui. Certo Innaco e Mattei erano più informati: l’esperienza del Forteto nasce alla Querce, a Prato. Qualcosa era trapelato».
 

La Regione vuole costituirsi parte civile: non le pare un’iniziativa tardiva, come a voler rimediare a un grosso pasticcio?
«No, anzi considero la dichiarazione di Rossi sul piano politico come una presa di coscienza e di consapevolezza. Una maturazione al termine di un percorso difficile e delicato».
 

Il Forteto-azienda che fine farà?
«Si è parlato di posti di lavoro a rischio. Ci sono l’associazione, la cooperativa agricola, braccio economico della struttura, la fondazione onlus della quale è responsabile del progetto e referente Luigi Goffredi....Nata più di recente, è andata nelle scuole a presentare il progetto. Io sono d’accordo con quanti dicono che devono essere differenziati i gradi di responsabilità. Che non bisogna con l’acqua sporca gettare via il bambino. Basta che queste tre realtà siano trasparenti e riconoscano gli errori al loro interno: chi ha sbagliato deve pagare».
giovanni spano