L’export tiene, i salari no Benefit solo dalle griffe

Le grandi imprese riescono a garantire un aiuto economico ai propri dipendenti. Nelle piccole e medie aziende l’aggiunta in busta paga non basta per mutui e bollette

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di Bruno Berti

EMPOLESE VALDELSA

Le imprese del lusso, a partire per noi da quelle della moda inserite nel circuito ‘magico’ dell’export, vedono un 2023 con prospettive interessanti, visto che sul lusso il sole degli affari raramente tramonta nonostante l’inflazione (sia pure con i problemi finanziari che Marco Landi di Federmoda Cna ricordava su queste colonne tempo fa). Dal punto di vista del sindacato il quadro non è così idilliaco: si ripropone la questione di stipendi pesantemente falcidiati dall’aumento dei prezzi. Una situazione a cui gli accordi sui benefit aziendali, molto meno diffusi di quanto si possa pensare, non riescono certo a porre rimedio. Ne è convinto Sergio Luschi della Filctem-Cgil sulla base di una valutazione dettata da un’esperienza di lunghi anni nel settore dell’abbigliamento, quello che ancora oggi costituisce l’ossatura del manifatturiero nell’Empolese Valdelsa e che soprattutto è la punta di lancia storica dell’occupazione femminile nella nostra zona. Tutti gli empolesi, e non solo, possono dire che la loro famiglia, in un modo o in un altro negli anni ha avuto a che vedere con le confezioni. Altrimenti il legame delle diverse generazioni è nel segno delle vetrerie, l’altro comparto che ha reso grande, e ricca, la città e la sua zona.

"Credo di poter dire senza tema di smentita – dice il sindacalista – che da noi ci sono circa una decina di imprese, tutte grandi, che hanno accordi per la corresponsione di benefit ai dipendenti: le aziende di minori dimensioni non ricorrono a questo tipo di intese, che comunque si concretizzano solo in presenza di risultati aziendali positivi". In genere si tratta di somme che non superano i mille euro, questo senza considerare i grandi nomi, che ovviamente operano in base ad accordi di gruppo. Basti pensare a un big come Prada che ha una fabbrica a Fucecchio. Dal punto di vista del sindacalista, il risultato è che sempre più spesso, soprattutto in mesi di inflazione galoppante e di bollette per le forniture energetiche da infarto, è povero chi lavora, come sostengono da tempo la Cgil e fior di studiosi che si occupano delle condizioni dei dipendenti. "Per noi il problema è che servono salari più alti, perché le esigenze dei lavoratori sono le stesse, anche se lavorano in imprese medie o piccole, com’è la grande maggioranza di quelle che compongono il settore della moda". Nel quadro del comparto dell’abbigliamento non poteva mancare il riferimento a una presenza che ormai possiamo definire storica, quella delle imprese gestite da cinesi. Sono state loro, in tempi grami per la mancanza di occupazione femminile, anche a causa delle ricorrenti crisi che avevano falcidiato il settore a partire dalle imprese più grandi, hanno garantito a livello locale una manodopera abbondante e che lavorava praticamente senza sosta. Tutti noi ricordiamo i controlli in imprese, diciamo così, dove i bambini giocavano, e spesso vivevano, mentre i genitori facevano andare macchine da cucire che sembravano non fermarsi mai. Adesso le condizioni sono decisamente migliorate, tanto che le imprese degli orientali si sono evolute, diventando preziosi contoterzisti di ‘ditte’ con nomi importanti, senza dimenticare quelle che vanno sul mercato in proprio. Bene, le confezioni con proprietari di origine cinese sono, stando a calcoli accreditati ma forse un po’ troppo cauti, circa 100. Certo, le crisi che hanno reso da brivido l’economia del nostro Paese hanno indotto qualcuno, che magari aveva accumulato un gruzzolo, a tornare a casa, o più semplicemente a spostarsi in luoghi meno ‘da paura’.