"Il teatro? Un talismano contro la solitudine"

Silvio Orlando protagonista all’Excelsior il 17 febbraio con lo spettacolo "La vita davanti a sé" tratto dal capolavoro di Romain Gary

Migration

"La vita davanti a sé". Un pensiero che vale un potenziale da esprimere, legato all’età, certo, ma non necessariamente limitato da un orizzonte dove gli anni si sono fatti sentire. E’ Silvio Orlando a portare in scena all’Excelsior il 17 febbraio il testo tratto dal romanzo “La vie devant soi” di Romain Gary, con musiche originali di Mario Tronco, regia di Leo Muscato, produzione Cardellino. Centrale nel libro e sul palco è Momò, un bambino arabo che vive a Belleville nella pensione di Madame Rosa, anziana ex prostituta ebrea che si prende cura dei figli avuti accidentalmente dalle colleghe. Un bambino la cui esistenza diventa l’incarnazione della possibilità di stringere legami e diventare umanità, anche partendo da posizioni agli antipodi.

Orlando, perché ha scelto la storia di Momò?

"Come tutte le cose che poi incidono nella vita è successo un po’ per caso. Sono inciampato in questo romanzo e ne sono stato totalmente travolto, fino a farne una trasposizione teatrale".

Per quale motivo?

"I motivi, in realtà, sono tre. La creazione di un linguaggio particolare e musicalissimo. Lo scrittore, Gary è ironico, divertente e commovente e mi ha dato l’idea che quelle cose me le sentivo bene in bocca e le potevo dire con efficacia. Secondo tema. La possibilità di convivenza fra etnie e religioni diverse in uno stesso luogo. Anche noi italiani stiamo sperimentando e ancor più sperimenteremo cosa significa. Ultimamente ci siamo scoperti un po’ razzisti e insofferenti e l’idea di ’italiani brava gente’ ha un po’ vacillato. Infine la storia. Questo ragazzino orfano che vuole ricostruire il rapporto con la madre che non c’è. E’ un tema universale: ho scoperto che nessuno ha mai risolto fino in fondo il rapporto con la propria madre. C’è qualcosa di intimo in Momò che fa si che lo spettacolo arrivi non solo al cervello ma anche al cuore delle persone".

Qual è stata la parte più difficile nel diventare Momò?

"Diventare un ragazzino per me che ho più di sessant’anni è stata una grande opportunità, ho tolto dal testo qualunque tentazione di realismo e ho lasciato vivere Momò, gli elementi fantasmagorici che sono sullo sfondo del romanzo e che solo la magia del palcoscenco può far risuonare".

Da questo romanzo è stato tratto un film con Sophia Loren...

"L’elemento fantasmagorico non è stato colto al cinema, ma nel teatro rivive. A teatro questo è possibile, perchè attraverso la parola lo spettatore lo porti dove vuoi tu".

Dopo due anni di pandemia, che sarà del teatro?

"Questo può essere un momento veramente magico per il teatro. Se riusciamo a uscire dalla gabbia strutturale che si è creata in Italia e che è autoreferenziale e difensiva. E’ il momento in cui il teatro deve tornare a parlare al cuore delle persone perché il vero problema è la solitudine, anche dorata, in cui siamo immersi nelle nostre case. Una comodità che ci porta a una solitudine sempre più forte. Il teatro può rompere l’accerchiamento della solitudine, perché è un’esperienza che non ha surrogati. E attraverso il teatro le persone possono imparare a creare comunità, stare insieme e condividere".

A Empoli c’è il progetto del primo esempio di teatro civico partecipativo, che ne pensa?

"Ricreare una comunità intorno a una passione, a un interesse condiviso è meraviglioso ancor più se si riesce a mettere in moto una bella fetta di cittadini che partecipano. Il teatro agli albori era costruito dai signori, ma poi diventava il luogo di tutti, il luogo di un rito collettivo. Se le persone diventano padrone di quello che vivono e ’consumano’ è bellissimo"

Francesca Cavini