Il lavoro povero è un problema in crescita E le donne ne subiscono le conseguenze

I sindacalisti della Cgil Donatella Galgani e Paolo Grasso fanno il punto sulla situazione, resa più grave dalla pandemia

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di Bruno Berti

Il lavoro povero, quello in cui si è persa la nozione di un impegno che dia non solo da mangiare ma anche dignità, è una realtà pesante anche in un’area come la nostra, dove l’impegno delle organizzazioni sindacali è un dato assodato. In negativo influiscono una banalizzazione del lavoro, inteso come mera sopravvivenza, o poco più, e una serie di normative che non tengono nel dovuto conto le esigenze di chi presta la propria opera nelle imprese. In proposito abbiamo sentito due sindacalisti tra i più interessati, per le categorie che rappresentano, a questo fenomeno. Si tratta di Paolo Grasso, della Fp-Cgil, che si occupa degli appalti pubblici e, per estensione, del terzo settore, le cooperative sociali (quelle che un tempo erano viste come una soluzione al problema del non lavoro), e di Donatella Galgani, della Filcams-Cgil, che rappresenta gli addetti del commercio e del turismo. "Facendo un rapido conto – dicono i due sindacalisti –, tra i 4.000 addetti della zona delle cooperative sociali e tra i 5.000 dipendenti del commercio e turismo possiamo stimare un 50% di lavoro povero". Come si capisce bene, mettere in conto (in un’area che da più di 70 anni guarda a sinistra) un piccolo esercito di circa 4.500 lavoratori poveri è un dato che fa male.

Nella zona gli occupati sono, secondo dati al 2019 (prima della pandemia), 60.000, il 35% dei quali nel manifatturiero, con un tasso di occupazione nell’Empolese al 52%, il più alto della Toscana. Per stipendi poveri s’intendono mensili che vanno dai 500 agli 800 euro lordi, spesso dovuti al part time involontario, reso possibile in base a mansioni con orari brevi, e con il tempo pieno che sembra una specie in via di estinzione. E poi non si deve dimenticare che questa realtà riguarda in larga parte le donne, “che quindi vedono sempre più compromesse – sottolinea Galgani - le possibilità di una vita lavorativa soddisfacente, mentre il tempo pieno riguarda in larga maggioranza i maschi“. Nella poco invidiabile categoria dei lavoratori poveri non mancano gli uomini, come gli autisti del trasporto scolastico, esempio evidente di part time involontario, con orari sfalsati che impediscono di avere una seconda occupazione. Tutto questo senza contare la mala pianta dei contratti pirata, quelli firmati da organizzazioni sindacali fantomatiche i cui compensi rendono praticamente impossibile campare. E meno male che da noi il fenomeno è davvero ridotto. "Negli appalti pubblici – attacca Grasso – il lavoro povero è un’abitudine, anche per una responsabilità politica", che interroga l’impalcatura di norme che rendono praticabile un simile ‘sistema’. D’altra parte il ricorso alle coop sociali, in tanti enti locali, è stato un modo per sopravvivere ai continui tagli delle risorse decise dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni per far fronte a una finanza pubblica sempre più in affanno. "Gli eroi delle Rsa del periodo più nero della pandemia – riprende Grasso – oggi sono in difficoltà mentre a livello locale si affacciano gruppi, anche esteri, che si impegnano per l’apertura di nuove residenze per anziani (Castelfiorentino e Vinci), mentre in altri casi si assiste a forme di privatizzazione, a Montaione. Si può parlare di un’Opa lanciata sul territorio nel comparto degli interventi socio-sanitari. Questo avviene mentre nelle strutture esistenti non si riescono a fare le 35 ore settimanali perché negli appalti si sono diminuite le mansioni da compiere. Senza contare che il contratto delle coop sociali è scaduto dal 2019".

C’è poi un problema di sotto inquadramento nel settore scuola, le mense, ad esempio, dove le ore previste sono poche e “dove non si tiene conto delle mansioni stabilite dal contratto di lavoro“. "Senza contare - chiude Grasso -che negli ultimi 20 anni le coop sociali sono diventate imprese simili alla altre, mantenendo, sostanzialmente, i livelli di retribuzione di un tempo", quando l’accento era sul lavoro come inclusione sociale e non come sostentamento reale.