Veti e rinunce, sappiamo solo chi non vogliamo

Il Quirinale e i no dei partiti

La direttrice de La Nazione, Agnese Pini

La direttrice de La Nazione, Agnese Pini

Firenze, 23 gennaio 2022 - Solo questo oggi sappiamo, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Montale pare averlo scritto per noi, questo crudele celebre verso, pare averlo scritto per queste elezioni del tredicesimo presidente della Repubblica. Un verso che nelle ultime ore convulse scandisce, come un monito, l’agenda della politica. La corsa al Colle, nelle frenetiche trattative tra i partiti, si sorregge sulla dialettica della negazione, che segna le uniche certezze di un quadro estremamente confuso: sappiamo, di certo, che Silvio Berlusconi non sarà presidente (si è ritirato ieri dalla corsa, un ritiro insieme amaro, drammatico e burlesco, tra scoiattoli, sberleffi e peones).

Sappiamo che Forza Italia non vuole Draghi, sappiamo che i 5 Stelle non vogliono Amato, sappiamo che il Pd non vuole né MorattiFrattini, né PeraCasellati. Sappiamo ciò che non vogliamo (anzi, ciò che non vogliono) e ciò che non siamo (anzi, ciò che non sarà). Così a poco più di 24 ore dall’inizio del voto possiamo dire che finora la grande assente in questa partita è stata la capacità di costruire un progetto o di gestire quella tanto citata regia che avrebbe potuto o dovuto far convergere gli appetiti dei partiti su un nome "non divisivo". Altra parola estremamente abusata.

In parte questa impasse è dovuta al fatto che non esiste una vera maggioranza capace di condurre il gioco. Di fatto, centrodestra e il nuovo centrosinistra che vede uniti Pd e 5 Stelle sono due grandi minoranze, trovandosi ad avere un novero di parlamentari sostanzialmente pari. Ma il vero motivo che giustifica la politica della negazione sta altrove: il punto debole non è il Quirinale in quanto tale, ma il Quirinale legato al destino del governo. Mai come in questa elezione i due fili sono stati tanto intrecciati. Meglio, attorcigliati, con una serie di conseguenze che inquinano il quadro: perché il potere dei presidenti della Repubblica, da Scalfaro in poi, si è enormemente rafforzato, diventando determinante nella vita politica del Paese. E perché il nome oggettivamente più spendibile per il Colle - quello di Mario Draghi - segna con la sua eventuale elezione un salto logico nella Costituzione italiana.

Mai un premier era passato direttamente da Chigi al Quirinale, trovandosi nella condizione di dover nominare il suo successore, aprendo così nella sostanza la strada a un sistema semi presidenziale. Ora: i partiti lo sanno, e non vogliono mettere a rischio la capacità di incidere e di perdere potere, magari dovendo digerire un ennesimo nome tecnico a capo del governo. In tutto questo, non ho ancora citato né Italia Viva né la Lega. La prima, tramite Renzi, dialoga con Letta ma non chiude la porta a Salvini. Quest’ultimo è l’unico a non avere ancora espresso veti ufficiali, e potrebbe sfruttare l’appoggio renziano (più o meno diretto) per sparigliare le carte magari al quarto scrutinio. Quando la sintesi per negazione potrebbe arrivare al suo massimo: del resto la storia ci insegna che da sempre il requisito essenziale per diventare presidente non è il consenso, ma l’assenza di veti.