Tre scene dal Paese smarrito

Resistere ai tempi del Covid-19

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

Firenze, 22 marzo 2020 - Scena prima. Ieri ho sentito dopo molto tempo un caro amico. Vive nella Bergamasca, straziata dalla tragedia mondiale chiamata coronavirus. Mi raccontava questo: che al suo paese da qualche giorno hanno vietato alle ambulanze di suonare nelle strade perché la gente, ormai, impazzisce al solo sentire le sirene: «Sirene e silenzio, non c’è altro», mi ha detto con il tono di chi non è più neppure terrorizzato, perché la rassegnazione ha trasformato il terrore in fatalismo: «Altrimenti impazzirei anch’io». E mentre lo ascoltavo da Firenze, mi sono vergognata: il mio dolore mi è sembrato quasi ridicolo di fronte a quella collettiva agonia.

Scena seconda. Più o meno negli stessi minuti, una collega della tipografia che viene in redazione in bicicletta è stata protagonista di una disavventura che mi ha poi raccontato. Mentre pedalava, è stata apostrofata da un terrazzo, uno degli stessi terrazzi patriottici e musicarelli, variopinti e commoventi di questi giorni: «Stai a casa (qui ometto di riferire l’insulto irripetibile)», le ha urlato una voce anonima. «Ci starei volentieri, devo andare a lavorare».

Scena terza. Apro Facebook e vedo che gira una foto rubata a Prato, davanti a un supermercato. È uno scatto dall’alto, mostra una composizione umana che se non fosse la cruda cronaca dei nostri dolorosi tempi potrebbe apparire beffardamente artistica, quasi una coreografia: corpi in fila a coprire un’intera piazza, ciascuno a un metro di distanza, ciascuno (o quasi) dotato di carrello e mascherina.

Ecco l’Italia del 21 marzo 2020 in tre sequenze. Abbiamo le ambulanze e le stragi, poi la quarantena che diventa caccia agli untori, infine le ordinanze confuse della politica che ci trasformano in un Paese in coda, la metafora di ciò che in effetti siamo: un’intera nazione in precaria attesa che il disastro abbia fine. Se è vero che siamo tutti smarriti nella paura, possiamo però provare a trarre da queste tre immagini una morale.

C’è qualcosa di psicotico nel modo in cui noi cittadini riversiamo le nostre angosce e nel modo in cui i governanti le traducono. Gli amministratori del Nord hanno stentato fino all’ultimo a fare l’unica cosa che avrebbe potuto effettivamente fermare la strage (più dei divieti sui parchi e sui giardini), ovvero la chiusura delle fabbriche e degli uffici, infine decisa ieri sera.

Paradossalmente,i sindaci toscani erano stati più pronti e uniti dei loro colleghi lombardi a chiedere con una lettera inviata a Conte proprio questo, ovvero che le attività non legate alla produzione di cibo e farmaci venissero sospese. Ci fanno più paura i giardini delle fabbriche, o forse chiudere subito i giardini è stata solo la soluzione più semplice: ma a quale prezzo? Mi torna in mente una vecchia storia della Cina di Mao, quando per preservare le coltivazioni agricole sterminarono i passeri, avvelenandoli. E il risultato fu che il grano venne divorato dagli insetti.