Sulle montagne russe del virus. I dieci giorni che sconvolsero l’Italia

La cronaca ai tempi del Covid-19. Il panico di Conte, l’incoerenza di Salvini, la schizofrenia delle Regioni. Ecco perché questa volta i giornalisti non hanno (troppe) colpe

Preghiere e mascherine (foto Ansa)

Preghiere e mascherine (foto Ansa)

Firenze, 1 marzo 2020 - Nel nostro Paese campione mondiale di gallinaio, l’abilità massima non è solo quella di improvvisarsi esperti della domenica su più o meno qualunque cosa (dal calcio all’attualissima passione per la virologia), ma è anche quello di trovare facili capri espiatori. In genere giornali e giornalisti sono perfetti per questo ruolo. Così, a mo’ di preventiva espiazione, sono andata a rileggermi qualche recente cronaca ai tempi del coronavirus: gli ultimi folli dieci giorni che passeranno alla storia forse non per il numero dei contagiati, ma di certo per la montagna di bislaccherie e contraddizioni. Bene: in questa montagna, i giornalisti per una volta non stanno in vetta.

Perché ecco che cosa ho trovato: ho trovato che mentre i giornalisti mettevano a ferro e fuoco il Paese (cit.), anche altri facevano la loro bella figura.

Comincio col presidente del consiglio solo per importanza istituzionale. Fino al fatidico 20 febbraio, il giorno dello scoppio del caso-Codogno, il mantra a favor di telecamera è: "Tutto sotto controllo". Esattamente tre giorni dopo, compare per 16 (sedici!) volte in tv e infine sospira: "Questa esplosione di contagi ha sorpreso anche me" (23 febbraio).

Per par condicio passiamo a Salvini che in meno di una settimana riesce a dire le seguenti cose: 1- "Forse ora qualcuno avrà capito che è necessario chiudere, controllare, blindare, bloccare?" (22 febbraio); 2- "Bisogna tornare alla normalità con le riaperture e il rilancio dell’economia" (27 febbraio), fino al grande classico buono per tutte le stagioni, e siamo al punto 3- "Conte si deve dimettere".

Nelle Regioni non è andata meglio. In Lombardia per esempio hanno chiuso le scuole ma hanno lasciato aperto il metrò (pare che i morbi siano claustrofobici), mentre a Milano hanno messo il coprifuoco ai bar alle 18 (è noto che questi coronavirus dei tempi moderni amino le ore piccole). Il governatore Fontana, poi, è riuscito in un miracolo comunicativo senza precedenti passando da "il virus è una normale influenza" (25 febbraio), a girare un video con tanto di mascherina in cui annuncia battaglie all’ultimo sangue contro il morbo (27 febbraio). Nelle Marche invece hanno chiuso le scuole così, d’imperio, senza che fosse stato registrato neppure un caso (forse non volevano sentirsi da meno dell’Emilia), mentre in Basilicata il 20 febbraio hanno emanato la seguente ordinanza: "Quarantena per chi arriva da Veneto, Lombardia e Cina". La solita italietta, direte, all’estero avranno brillato per equlibrio e pacatezza. Invece no. A Mauritius hanno rispedito indietro 40 turisti italiani manco fossero un pacco bomba. Israele non vuole più saperne di farci entrare nel Paese. Al Brennero giorni fa hanno stoppato un treno salvo poi chiedere scusa.

E gli scienziati? Sulla gravità del morbo lo scontro è tra Maria Rita Gismondo e Roberto Burioni. Lei: "Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale" (23 febbraio). Lui: "La signora del Sacco ha lavorato troppo nelle ultime ore". Sui metodi con cui contare i contagiati si accapigliano invece Walter Ricciardi e Massimo Galli. Il primo: "I test dei laboratori regionali hanno ancora margini di incertezza e bisogna attendere la verifica dell’Istituto superiore di sanità" (28 febbraio). Il secondo: "Già ci vuole tempo per gli esami, dovremmo anche aspettare la conferma da Roma, di cosa stiamo parlando?".

Dunque: è sempre colpa dei giornalisti, ok, ma stavolta siamo almeno in buona compagnia. Ha ricordato Mattarella: "La conoscenza è l’unico antidoto della paura" (28 febbraio). Che altro dire? Grazie, Presidente. © RIPRODUZIONE RISERVATA