Contro il virus la politica degli scongiuri

Quello che (non) impariamo

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

La direttrice de La Nazione Agnese Pini

Firenze, 29 novembre 2020 - Siamo arancioni! L’urlo di giubilo è durato meno di mezzo pomeriggio: "No, meglio di no, ancora no, per qualche giorno almeno. Abbiate pazienza". E poi: "La Toscana deve resistere fino a venerdì prossimo!". "In realtà un po’ di più: fino a domenica". "Beh, se tutto va bene, forse si cambia colore già sabato". Non sto dando i numeri. Ho solo sintetizzato la ridda di dichiarazioni temporal-cromatiche che hanno accompagnato l’agenda politica degli ultimissimi giorni, rimbalzando rapsodicamente fra Firenze e Roma, fra il governatore Giani e il ministro Speranza. Non fossimo a parlare di cose molto (troppo) serie, sarebbe da prenderla sul ridere.

Ma la politica dei comitati tecnico scientifici, dei partiti deboli, delle istituzioni locali divise e fragili, si gioca ormai così: sul filo delle ore, delle riunioni rinviate, delle decisioni rabberciate. E allora non è un caso se il dibattito pubblico è stato ultimamente monopolizzato da discussioni tanto sfinenti quanto inutili. Del tipo: far nascere Gesù Bambino alle 22 o alle 24, aprire le piste da sci mentre restano chiusi i bar (intanto le apre la Svizzera, e andremo tutti a contagiarci a suon di franchi), organizzare il casalingo veglione di Capodanno in tavoli da sei o da otto.

Le polemiche che si sono accese mi hanno ricordato ahimè da vicino le snervanti diatribe di fine agosto, quando con altrettanto inutile ardore ci si accapigliava sulla capienza dei bus per la scuola («riempiamoli al 70%, no al 50», «mettiamo il plexiglass tra le sedie, no il contapersone all’ingresso»), o sui banchi in classe («singoli, a rotelle, quadrati, rotondi»). Risultato: le scuole superiori hanno chiuso in massa nemmeno due mesi dopo l’apertura. Ecco, a forza di discutere su quanti parenti metteremo a tavola a Natale, o su quale orario scegliere per la messa notturna, rischiamo di finire nello stesso modo. Con un Paese che dopo aver (ri)aperto qualcosina in più per festeggiare il Natale, sarà costretto a richiudere in gran fretta. Perché di mezzo, intanto, ci sta sempre lui: il Covid. E poco conta quale sia la regione peggiore, quale meriti la lettera scarlatta. Il tema è per una volta più profondo, e cioè: non impariamo mai. Facciamo gli scongiuri perché si abbassi anche questa volta la curva dei contagi, preghiamo che arrivi presto il vaccino, tocchiamo ferro sperando che il caldo o il freddo o l’inverno o l’estate plachino l’aggressività del virus. E nel frattempo non ci concentriamo sull’unica cosa che dovremmo migliorare: il sistema sanitario, che fa sentire ancora soli i malati, che lascia esposti i medici, che non offre certezze di cura, che rischia di saltare per aria con le terapie intensive sempre sull’orlo del collasso. Con buona pace dei cenoni di San Silvestro.