Covid, ecco chi va in rianimazione ora: il 95% non è vaccinato. Crescono i fragili

Il punto con Antonino Giarratano, neo presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva

Terapia intensiva Covid

Terapia intensiva Covid

Firenze, 18 novembre 2021 - Il 95% di chi finisce in terapia intensiva non è vaccinato, mentre sale la quota dei fragili che si sono immunizzati all'inizio della campagna e che adesso hanno una protezione di anticorpi minore. Il quadro viene presentato da Antonino Giarratano, neo presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva in una intervista all'Adnkronos. 

Rianimazioni, crescono i fragili immunizzati

Fino a poche settimane fa - spiega ancora Giarratano - nei nostri reparti erano quasi tutti non vaccinati, con un 5% di vaccinati fragili. Nelle ultime due settimane, in diverse aree del Paese, dai dati del nostro sistema di monitoraggio Siaarti, crescono i fragili vaccinati, con differenze regionali che vanno dal 5 al 15%. E cominciamo a vedere anche 'fragili meno fragili', ovvero non più il diabetico, scompensato, con problemi polmonari e grande anziano, il cui equilibrio è particolarmente precario. Adesso vediamo anche pazienti che non hanno patologie concomitanti gravi in senso stretto, parliamo dei grandi obesi oppure gravi ipertesi, con un'età dai 48 ai 59 anni. Pazienti che hanno una sola di queste problematiche".

"Avanti con la vaccinazione"

Per evitare che le persone vulnerabili, nonostante la doppia vaccinazione, vadano incontro a ricoveri, spiega Giarratano, è necessario "vaccinare una percentuale superiore al 90% della popolazione. E serve farlo su due fronti: con la prima dose, a chi non si è mai vaccinato per evitare la circolazione del virus, e con la terza dose per i fragili, anche con una sola patologia a rischio, che hanno fatto la vaccinazione 9-10 mesi fa, in modo da aumentare la capacità di riposta immunitaria ed evitare che arrivino nelle nostre terapie intensive come sta accadendo".

La durata del green pass

"Portare la durata del Green pass a 9 mesi è utile - aggiunge -. Ormai è documentato dagli studi più recenti pubblicati che la risposta anticorpale scende dopo un lasso di tempo. E quindi aumenta il rischio che le persone vulnerabili vadano incontro a malattia. Questo lo riscontriamo già nelle nostre terapie intensive dove abbiamo una crescita dei pazienti fragili", dice.

"Non sappiamo la durata dell'immunizzazione"

"La scelta della durata del certificato verde - continua - è più politica che tecnica. Ma le indicazioni scientifiche possono orientare. Gli unici due studi che abbiamo ci dicono che dopo 6 mesi si abbatte del 60% la capacità anticorpale di reagire al virus. In ogni caso dobbiamo sempre tenere presente che ancora non sappiamo tutto su come funziona l'immunità rispetto a questo virus. Acquisiamo sempre più conoscenze ma non sappiamo tutto".

"Personalmente - conclude - ho fatto la terza dose ma, al momento, non so se mi coprirà. Potrebbe darmi un'immunità di sei mesi oppure di due anni. Non lo sappiamo. Abbiamo il dato clinico oggettivo della perdita di capacità di proteggere dal contagio, non dalla malattia grave, dopo 6- 9 mesi, e quindi è opportuno fare la terza dose, soprattutto ai fragili, altrimenti riempiamo di nuovo le terapie intensive".