"La resurrezione è qui: nei volti dei nostri medici"

Il cardinale Betori, arcivescovo di Firenze, e la Pasqua stravolta. "La vita è un dono anche nella morte. Io che sono nato tre volte lo so bene"

Il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori (New Press Photo)

Il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori (New Press Photo)

Firenze, 12 aprile 2020 - Dalle alte finestre dell’arcivescovado la cattedrale e il campanile sono un gioco di luci e ombre sul pavé di cui si ritrovano unici padroni: piazza San Giovanni non è mai stata così deserta. Sarebbe da piangere, e un po’ mi viene in effetti da piangere a vedere tutto così immobile: come si fa a festeggiare questa Pasqua da reclusi e impauriti? Invece il cardinale sorride dietro la scrivania del suo studio, dal cui soffitto di legno dipinto si scheggiano impercettibili patine di stucco polverizzato in un pulviscolo bianco «che ogni mattina mi ritrovo sui libri, le pile di carte, il crocifisso», dice Giuseppe Betori, arcivescovo dal 2008 dell’ormai sua Firenze.

In fondo l’idea, o meglio la necessità di questa intervista nasce proprio da qui, dal desiderio di capire ciò che nel nostro 2020 travolto dalla paura del coronavirus non possiamo capire con la sola ragione.  Dunque eminenza, come si fa a sorridere?  «C’è un fatto, ed è questo: la rinuncia a uscire, a privarsi di un poco della propria libertà per un bene superiore, è una grande prova cristiana». Ed è anche il fondamento della democrazia. «Ma la democrazia è nata nella cristianità, nelle abbazie benedettine dove nulla si può decidere senza che prima sia ascoltata la parola di tutti, e anche l’abate viene eletto dai monaci». Ho letto questo: che i primi monaci soffrivano di malinconia per il loro essere reclusi, e che la malinconia era considerata un peccato mortale.  «E’ vero, perché provare malinconia significava non avere fiducia in Dio, perdere la gioia nel riconoscerlo».  Ma quando vede da queste finestre la piazza così deserta, non prova anche lei un po’ di malinconia? «Malinconia no. Provo nostalgia per il passato. Non per tutto il passato: ci sono degli aspetti che non rimpiango, anzi che non sopportavo proprio, come la bolgia dei turisti, e sempre mi soffermavo a chiedermi se questi uomini e queste donne avessero almeno l’alfabeto di base per comprendere la bellezza che stava loro intorno».  Però i luoghi sono fatti per essere vissuti, non contemplati.  «E infatti questo manca: per esempio manca umanamente e non solo religiosamente che le persone non entrino più dalla porta della cattedrale, o del battistero». Hanno chiuso le chiese ma hanno lasciato aperte le tabaccherie. L’ha offesa questo?  «Mi ha indispettito, all’inizio. Però devo intanto precisare una cosa, e cioè che le chiese sono aperte e non abbiamo smesso di celebrare: abbiamo smesso di celebrare con il popolo, e questo rattrista. Siamo uomini, abbiamo bisogno di esperienze concrete, corporali. Del resto senza il corpo non esiste il cristianesimo: Gesù non potrebbe morire se non avesse un corpo, e a risorgere non è l’anima di Gesù, è il corpo».  Ad ogni modo, si è indispettito... «Molto, perché nel primo decreto è stato stabilito che non si potesse uscire di casa per andare in chiesa, come se la preghiera non fosse un bisogno fondamentale. Ero arrabbiato, e così ho riflettuto a lungo su questa cosa fino a che non ho cambiato idea, sentendomi addirittura lusingato. Mi sono chiesto quali fossero considerati i bisogni fondamentali secondo le regole di oggi. Eccoli: sono quelli che rispondono all’istinto, come il cibo, o a una dipendenza, come le sigarette. E io glielo dico da ex fumatore: so bene quale rinuncia sia il fumo. Ma la fede non è né l’esito dell’istinto, né della dipendenza».  E cosa è la fede? «È libertà, e come tale si può esprimere in molti modi».  La risposta dei fedeli a tutto questo come è stata? «Qualcuno mi ha inondato di mail lamentando che ci siamo sottomessi come Chiesa al potere politico. Ma la stragrande maggioranza ci sta ringraziando per aver contribuito a contenere la diffusione del virus. Quanto alla presunta subordinazione al potere politico, penso che la Chiesa ha scelto di collaborare, seguendo il principio della carità». Lei crede che risorgeremo nuovi da questa pandemia, come fosse una nostra Pasqua? «La resurrezione di Gesù è una certezza: dalla fede nella resurrezione di Gesù i cristiani traggono la speranza per la resurrezione del mondo. E la resurrezione del mondo è già all’opera in mezzo a noi». E dove la vede, lei? Io non riesco a vederla. «E’ nel medico che conscio del pericolo sta in mezzo ai malati e si prende cura di loro: è lui Gesù risorto, anche se non lo sa. Ma chi crede sa sempre che un amore così grande può nascere solo dall’amore di Gesù, e noi non siamo in grado di dire come l’amore di Gesù entri nel cuore degli uomini, non è che va a scegliere quelli più devoti». E chi sceglie? «Quelli più disponibili, che è un’altra cosa. Perché spesso i devoti pensano di possedere Dio». La resurrezione, o il nuovo rinascimento della sua Firenze come lo immagina? «Ho riletto in questi giorni il discorso che La Pira fece quando inaugurò il quartiere dell’Isolotto. Disse: un quartiere è come una casa, è la casa di tutte le famiglie che lo abitano, ogni suo aspetto contribuisce a formare un tessuto organico, e solo allora la città funziona. Credo che noi dovremo ritessere insieme famiglie, lavoro, assistenza, accoglienza, educazione, formazione. A Firenze bisogna ritrovare l’equilibrio, che si è rotto a vantaggio della sola dimensione turistica. Ma il percorso per la rinascita non è mai semplice: nella vita cristiana non c’è rinascita senza conversione. Solo la quaresima porta alla Pasqua».  Devo farle una domanda sulla morte, eminenza, proprio perché è Pasqua e perché come diceva lei il corpo di Cristo non avrebbe potuto morire se non fosse stato un corpo, e allo stesso modo non avrebbe potuto risorgere. La pandemia ci ha messo di fronte alla morte, ci è improvvisamente vicina e familiare. «Il mondo negli ultimi decenni ha tentato di occultare la morte, e ha persino cercato di gestirla. Oggi ci accorgiamo che la morte non la puoi nascondere, e non la puoi decidere: il coronavirus non lo scegli. La politica anche adesso si batte tanto per la morte dignitosa, quella che chiamano eutanasia, ma poi spesso non sa offrire una vita dignitosa».  Il problema è che una vita dignitosa costa troppo. «C’è una cosa che mi ha molto ferito, è la frase pubblicata giorni fa in un articolo sull’Economist che scrive: fino a quando potremo permetterci di curare tutti? Ecco il problema: quanto costiamo noi uomini. Gesù costò trenta denari, quanto costa un malato di covid?».  Lei ha mai avuto paura in queste settimane? Un prete può permettersi di avere paura? «Io sono nato tre volte: il giorno in cui sono venuto al mondo, poi a 39 anni quando ho avuto un infarto». A 39 anni? «Sì, e per questo ho smesso di fumare. Un valido motivo, vero? Ho visto la morte, e ho dunque riconquistato un altro pezzo di vita. Infine c’è stato l’attentato (novembre 2011, nel cortile della curia, ndr): ho faticato un po’ ad accettare la cosa, e cioè che davvero mi si voleva uccidere. I poliziotti mi hanno spiegato bene che quel signore (Elso Baschini, condannato a 8 anni e 10 mesi, ndr) voleva usare la pistola per sparare, e dove stava l’arma me lo ricordo: era vicino alla tempia. Dopo quel fatto ho ricominciato ancora un’altra vita. Ecco, vale la stessa cosa adesso: ciò che dobbiamo cogliere in questo momento è il dono della vita, anche il dono della vita di un genitore che muore, perché non dobbiamo vedere solo la fine ma tutto il percorso. A me è stato offerto il dono di rinascere due volte, e questo mi dà la percezione netta che nulla è scontato, non è scontato che io stia qui in questo momento».  E cosa ha provato quando ha sentito la morte tanto vicina? «Ho pensato: speriamo che in quello che ho fatto finora il bene pesi un po’ di più del male, perché non ho altro tempo. L’ha detto molto bene un mio prete, che è stato ricoverato per coronavirus e solo da poco è uscito dall’ospedale: don Luciano Santini, il parroco di Pontassieve. Ha detto: quando stai per morire ti accorgi che non hai più tempo, che non puoi più rimediare».  Tutti noi coltiviamo in questi giorni il sogno di come saremo, di cosa faremo quando finirà la pandemia. Qual è il suo?  «Temo che non potremo essere liberi prima della fine del mese prossimo, ma per un verso lo spero perché il 31 maggio è Pentecoste. E allora io sogno questo: che il 30 maggio, vigilia di Pentecoste, raduno tutti i miei preti nella cattedrale per la messa del Crisma, che non ho potuto celebrare la mattina del giovedì Santo. Allora quel giorno mi ritroverò finalmente insieme a tutta la mia famiglia, perché i miei preti sono la mia famiglia».