Intervista alla famiglia Giangrande: "Io e papà, la nostra famiglia sgangherata"

Martina e Giuseppe Giangrande: alla ricerca della normalità sei anni dopo il dramma

Martina Giangrande e il padre Giuseppe

Martina Giangrande e il padre Giuseppe

Prato, 24 marzo 2019 - Adesso è in ospedale a Firenze, a lottare per l’ennesima volta. L’avversario è una polmonite, lo stesso che due anni fa, in quel caso d’estate, lo costrinse a stare di nuovo lontano da casa. Accanto a lui c’è sempre la figlia Martina, un angelo custode di 29 anni che dopo aver trascorso gli ultimi sei a fare forza al babbo, temendo anche seriamente di perderlo, non si è mossa di un centimetro, restando sempre al suo fianco.

Giuseppe Giangrande e Martina, padre e figlia, sono i membri di quella ‘famiglia sgangherata’ che vive a Prato, come la definirono loro stessi qualche tempo fa, e che di recente ha voluto rivolgere parole di incoraggiamento a Manuel Bortuzzo, il giovane nuotatore rimasto paralizzato. Lui, Bortuzzo, colpito per errore in strada a Roma da delinquenti. E lui, Giangrande, costretto a vivere su una sedia a rotelle dopo essere rimasto gravemente ferito il 28 aprile 2013 davanti a Palazzo Chigi dai colpi esplosi da Luigi Preiti, mentre il governo Letta stava giurando. Obbligati a fare un’inversione a U con le loro vite, ma forti e orgogliosi di guardare avanti.

Famiglia Giangrande, siete davvero ‘sgangherati’ come dite?

Martina: «Abbiamo la nostra routine, ma fatichiamo a trovare una certa dose di normalità. La mattina aiuto il babbo a prepararsi insieme ad una signora, facciamo colazione insieme, poi lo accompagno a fare fisioterapia in un centro di Prato».

E dopo, avete qualche ‘rito quotidiano’?

Ancora Martina: «Certo, il pranzo. Stiamo sempre insieme, in cucina. Poi sistemo il babbo e nel pomeriggio cerco di sbrigare le commissioni, magari riesco anche ad andare qualche ora in palestra. Mi aiuta a rilassarmi. La sera cambiamo, dipende dal giorno...».

Ovvero?

Martina: «A volte il babbo cena in camera sua e io in cucina, a volte lo facciamo insieme in camera, dove invece restiamo sempre nel fine settimana, perché quello, il sabato o la domenica, è il momento della pizza. Ormai sono diventata brava a farla anche da sola. Preferenze? Lui capricciosa, io rossa e prosciutto. Ma consiglio anche quella con scamorza e limone...».

Riuscite mai a ‘evadere’ un po’?

Ancora Martina: «Ogni tanto. Abbiamo comprato una macchina dove può stare anche il babbo. Una delle ultime ‘gite’ l’abbiamo fatta in un centro commerciale appena fuori città».

Martina, le manca mai la sua vita di trentenne? Un amore, un lavoro?

«Sto bene anche da sola, perché la mia vita adesso è complicata, ma sfido chiunque a dire di no. Vorrei lavorare, anche se adesso non posso. Mi prendo cura del babbo, vado in palestra, faccio passeggiate con le amiche, magari per prendere un gelato. Questa è la mia vita ora, fatta di cose semplici».

Dopo 6 anni, crede che potrete recuperare un po’ di normalità?

«Sì, adesso è come se fossimo in una fase di rodaggio, prima o poi riusciremo a ottenere questa agognata indipendenza, un po’ più di libertà».

Una libertà che una volta era fatta, per Giuseppe, di pattuglie con l’Arma, lavoro per garantire l’ordine pubblico...

Giuseppe: «Tutte cose che mi mancano. Mi manca la routine quotidiana, le trasferte con i colleghi, la dedizione per il lavoro, i pomeriggi passati a chiacchierare e la sensazione di poter essere utile ai cittadini».

Giuseppe, cos’altro le manca della vita prima dell’attentato?

«Semplice: la normalità».

La sua vita è diventata un libro. Cosa le piacerebbe scrivere nel prossimo?

«Questo non lo so, ma vorrei essere utile ai giovani ragazzi, aiutarli».

Lo Stato è rimasto accanto alla sua famiglia?

«Sì, è sempre stato presente e non ci hai mai abbandonato. Anche con il nuovo governo abbiamo già avuto contatti».

Ha perdonato Luigi Preiti, condannato a 16 anni, sentenza confermata anche dalla Cassazione?

«No».

In questi sei anni lunghissimi, cosa l’ha sorpresa di più?

«La forza di volontà e il coraggio che mia figlia mi dimostra ogni giorno».

Giuseppe, perché ha scritto a Bortuzzo?

«Volevo fargli sentire la mia empatia, perché stiamo condividendo lo stesso percorso di vita».

Lei gli ha scritto: “Potrai fare quello che vuoi”. Come?

«Potrà continuare a gareggiare nel suo habitat naturale, accumulando vittorie, avvalendosi di tanti consigli tecnici e professionali di persone che per fortuna, o sfortuna secondo come la vogliamo vedere, avrà modo di incontrare».

Per superare le difficoltà, conta di più la volontà personale o la vicinanza della famiglia?

«Entrambe le cose, la famiglia e gli amici sono indispensabili per non smettere di avere volontà, mentre la volontà non può venire meno se si ha qualcuno per cui battersi, una famiglia a cui pensare. Anche se sgangherata...».