Genova, gli sfollati che perderanno la casa. Timori per gli sciacalli / VIDEO

Gli abitanti di via Fillak e via Porro, sotto il ponte Morandi, sperano di poter recuperare gli oggetti di maggior valore economico e sentimentale

Gli sfollati di via Porro (foto Pasquali)

Gli sfollati di via Porro (foto Pasquali)

Genova, 15 agosto 2018 - Speranzosi, all’alba, sono tornati e hanno dato i loro nomi e indirizzi alle forze dell’ordine schierate a decine per chiudere ogni varco. Sono gli abitanti di via Fillak e via Porro, i palazzi da cui hanno visto prima costruire il “miracoloso” ponte Morandi, poi hanno sentito il boato spaventoso del crollo e le pareti tremare, “come non finisse più”, e ora li vedranno ridurre in macerie. Hanno raccolto le loro generalità, li hanno rassicurati che sì, potranno tornare in casa, almeno a prendere le loro cose più preziose. Ma le ore passano in via Fillak e i varchi non si aprono. Anzi, continuano ad arretrare, sempre più lontane dall’apocalisse.

Volano i droni, telecomandati dai tecnici specializzati, le immagini visionate dagli esperti di Autostrade non sono rassicuranti. Precipita qualche pezzo di cemento, qualche ferro, da quel moncherino che spunta dal pezzo di ponte rimasto in piedi. “Per fortuna - dicono in coro gli sfollati - altrimenti non saremmo qui a raccontarlo. Ma ora lì dentro c’è rimasta la nostra vita, dobbiamo recuperarla per ricominciare. E’ un incubo: stanotte avrebbero bloccato due che cercavano di entrare. Ma dico, come è possibile tentare di rubare in una situazione del genere, con un dramma così grande. Ma controllano davvero le nostre cose?”.

Sono in tanti a vigilare , poliziotti, carabinieri, finanzieri, volontari. Si dividono i compiti: chi vigila sulle case svuotate, chi su quelli che vorrebbero raggiungerle, sui mille ansiosi di esserci, di strappare una foto, un selfie, di sentirsi parte del dramma. E sono i più, si mescolano ai volontari, ai giornalisti arrivati da ovunque. “Scusate ma sono qui da ore, con il terrore che qualcuno ci sfugga. Scusate se sono nervoso, dovete andar via anche voi” ci dice il poliziotto senza riuscire a tener fermi un attimo gli occhi.

Pedro, non si sa come, è riuscito a recuperare il gatto, ora può sorridere. Appena un cenno di sorriso. Gli altri sono qui, sotto il sole cocente che già poche ore dopo l’apocalisse aveva cancellato il nubifragio sotto cui il ponte si è accartocciato. Aspettando, sempre meno fiduciosi. Qualcuno è scappato in mutande quando il boato, “come un tuono fortissimo”, martedì a mezzogiorno ha accompagnato quella lunghissima e incomprensibile scossa. Ora ha addosso gli abiti recuperati in qualche modo, da amici, parenti, Comune, protezione civile, commercianti e cittadini solidali. Hanno trasformato i marciapiedi nelle panchine di cui in via Fillak non c’è traccia. Piano piano sono costretti ad allontanarsi sempre di più, metro dopo metro, dalla loro vita di ieri spezzata insieme a quel maledetto Ponte Morandi, verso un futuro che non conoscono. Senza sapere qualche ne avranno certezza.

LA STORIA DI QUELLE CASE - Sono qui in via Fillak all’alba. Sono decine, ma solo una piccola parte dei 440 sfollati in fretta e furia dagli undici condomini ex Ferrovie che nel 1964 si sono visti costruire il ponte “del futuro” sopra la testa e per decenni hanno vissuto con la sua ombra di morte sopra la testa. “Qualcuno ha persino comprato da poco: certo, costavano poco quegli appartamenti” dice Giovanna scuotendo la testa. Loro non se ne sono mai andati perchè li c’è tutta la loro vita. Ora le loro case le hanno perse perché li hanno continuato a vivere mentre il ponte lo costruivano, ora che devono demolire quello che non è venuto giú da solo quei palazzi diventeranno macerie. “Ma quelli che sono venuti dopo…”

Hanno avuto fiducia, come puoi pensare che un ponte lungo 1.183 metri possa crollare all’improvviso, un pilastro implodere e portarsi dietro duecento metri di autostrada con tutti quel che c’è sopra in quell’istante? Se credi sia possibile non vivi più, e Genova è un accavallarsi confuso di ponti, viadotti, sottopassi, cunicoli, sopraelevate, cavalcavia, che abbracciano case, palazzoni, capannoni, fabbriche, migliaia e migliaia di persone, migliaia di famiglie. “Sono arrivata dalla Calabria nel '60 e le case erano nuove, ce l’aveva data la Ferrovia perché mio padre lavorava lì. Erano appartamenti belli per i dirigenti ma alla fine loro erano pochi: gli inquilini erano quasi tutti operai - racconta Mimma Certo - Quattro anni dopo hanno cominciato a costruire il ponte Morandi, lo hanno inaugurato nel 1967 e subito dopo le ferrovie hanno cominciato a vendere gli appartamenti. Ci eravamo stupiti che vendessero i nostri e non quelli più vecchi dell’epoca fascista ma non abbiamo mai pensato di venire via, eravamo ragazzini, ce l’avevano raccontata come fosse un’opera d’arte, avveniristica, eravamo quasi orgogliosi di essere lì”.

Il ponte di Brooklyn, lo chiamavano. Ma quello è ancora su, contro il Morandi-bis sul lago di Maracaibo in Argentina si schiantò una petroliera e venne in parte ricostruito. Quello genovese sarà l’inchiesta a dire cosa ha fatto collassare il pilone centrale, quello infilato nel greto del Polcevera che oggi non sembra neppure un corso d’acqua ma quando s’arrabbia fa paura. Come tutti i torrenti che con Genova si sono trovati ad accettare una convivenza forzata.