"Io, paziente 1 del covid, feci da 'cavia' per i sanitari e per la società"

Andrea Storace, primo ricoverato a Firenze, "fra lunghe attese per la diagnosi, sanitari impreparati alla nuova malattia e vicini diffidenti, che disinfettavano ovunque"

Andrea Storace

Andrea Storace

Firenze, 25 febbraio 2021 - “Ho sperimentato sulla mia pelle quanto tutti fossimo impreparati nell’affrontare il coronavirus. I sanitari dal punto di vista medico, e la società dal punto di vista umano“. Andrea Storace 64 anni, imprenditore fiorentino con interessi nel mondo del turismo è stato il paziente 1 da Covid della città e forse della Toscana. Il 25 febbraio 2020 intuì che il tampone effettuato era positivo, osservando lo scafandro indossato dal medico che entrò nella sua stanza d’ospedale.

Un anno dopo, cosa prova? “Sono felice di averla scampata e anche di essere stato di aiuto per il personale sanitario, - tutti umanamente eccellenti - a scoprire come comportarsi. MI sembra di ascoltare ancora gli infermieri che leggevano a voce alta istruzioni su come utilizzare la mascherina e i tentativi con cui affrontavano altre procedure“.

Non ce l’ha con nessuno? “Non do colpa al mio medico per non avere intuito subito o al pronto soccorso per l’attesa di 12 ore. Comprendo tutti e mi tengo stretta la guarigione. Certo , mi fossi ammalato più avanti, non avrei trascorso dieci giorni a casa ad aranciate e vitamine. La malattia sarebbe stata subito affrontata diversamente, ma allora non era conosciuta“.

La prima diagnosi per Storace fu all’ospedale Santa Maria Nuova. Seguì il ricovero a Ponte a Niccheri, dove fu ricavato uno dei primi reparti covid della Toscana. Come andò? “Nel giro di 24 ore la diagnosi di polmonite semplice passò a polmonite doppia interstiziale. La febbre discese dopo le prime cure, ma respiravo con l’ossigeno. Dopo 3-4 giorni la situazione prese a migliorare fino alla guarigione dalla polmonite, alle dismissioni, anche se non riuscivo a negativizzarmi dal Covid“. 

Quindi? “Sperimentai ciò che tanti italiani hanno provato dopo di me: l’isolamento in casa. Mio figlio si trasferì da un compagno di scuola che vive in collina, come accadeva ai tempi del Boccaccio. Mia moglie si spostò in un’altra casa. Io ho trascorso un mese da solo, guardando un ponte dalla finestra“.

MIca male, la veduta dell’Arno. “Ammetto. La veduta è bella, ma sempre quella...“.

Avrà sperimentato in anticipo i servizi a domicilio divenuti compagni d vita per tutti . “Sì. Per fortuna i bottegai vicino casa mi portavano la spesa al pianerottolo“.

Ha immaginato come abbia preso il contagio? Si sentì vittima involontaria di qualcuno, o pensò di essere stato sfortunato? “Frequentai un negozio molto affollato.. Ma non importa come io abbia considerato me stesso. Mi colpì com’ero considerato dagli altri“.

Come? “Con diffidenza, quasi ostilità. Ho visto persone disinfettare i corrimano, l’ascensore“.

In fondo sono le misure che ci raccomandano ancora. “Ci diamo il gel tutti per difenderci da tutti. Allora sembrava lo facessero per difendersi solo da me. Non ho rancori, sarò stato una cavia per i medici e pure una cavia... sociale. Ma sono guarito e per me, un anno dopo, è la sola cosa che conta“.