Moby Prince, non si faccia colare a picco la verità

Il commento

Livorno, 4 luglio 2020 - Quest’anno, ad aprile, per la prima volta i familiari delle vittime del Moby Prince non hanno potuto celebrare la loro straziante cerimonia di ricordo: li ha fermati il lockdown per il Coronavirus. Ma il loro abbraccio, seppure virtuale, è stato ugualmente intenso, più forte del tempo e della distanza. Il ricordo non muore. Il dolore neanche. E la speranza neppure. Per quanto frustrata dalla tipica patologia italiana che trasforma in metàstasi quei tumori denominati "inchieste sulle stragi", ora quell’aspettativa di verità riprende vigore.

Le foto satellitari certificano una cosa importantissima: la superpetroliera Agip Abruzzo non doveva essere lì, la sera del 10 aprile 1991, essendo quella un’area vietata ad ancoraggio e pesca. ‘La Nazione’ lo scrisse già il 15 aprile 1991. Ora c’è la prova che quel gigante del mare, con 80mila tonnellate di Iranian Light, si trovava in zona vietata. Perché era lì? Come mai così vicina al porto? In questi 29 anni sono nate molte ipotesi, tutte via via smentite da una realtà processuale che finora non è arrivata ad alcun’altra certezza se non quella di lasciare senza colpevoli l’orribile fine di 140 persone. Tutte morte dopo lunga agonia perché – ricordiamolo – i soccorsi salparono 80 minuti dopo il ‘may day’ lanciato dal marconista del Moby. Ma le immagini satellitari non sono testimonianze confuse o annebbiate: le foto scolpiscono una verità che non ha margine di errore.

Non si prescriva l’inchiesta, ora. Prima che sia definitivamente troppo tardi, non si faccia colare a picco la scialuppa su cui boccheggia, stremata, la verità. Essa è in quelle due miglia e mezzo di distanza dal porto di Livorno. E’ una verità dovuta ai 140 morti del Moby Prince e all’Italia intera, che non ne può più stragi senza colpevoli.

© RIPRODUZIONE RISERVATA