La vita, il lavoro e il bisogno di certezze

Il commento del vicedirettore della Nazione

Firenze, 5 aprile 2020 - Aprire? Tenere tutto chiuso? Il dibattito sulla riaccensione del motore Italia vede schierarsi su fronti opposti quelli che difendono il lavoro e quelli che difendono la vita. Una contrapposizione senza senso. Perché quando una generica vita diventa la tua, quella dei tuoi genitori e dei tuoi figli, delle persone che amiamo e di quelle che ci fanno arrabbiare, beh, in quel preciso momento le prospettive cambiano. Un mondo dove la vita e il lavoro sono due cose distinte è un mondo che, semplicemente, non esiste.

Un artigiano del legno è un artigiano anche ai tempi del coronavirus, anche quando è costretto a non fare nulla per un bel pezzo. Un falegname, semplicemente, non è in grado di non pensarsi falegname, e un professore universitario - senza ombra di dubbio - resta un insegnante anche quando non parla con nessuno. Il lavoro, inoltre, caratterizza non solo noi stessi ma anche il Paese in cui viviamo, quella Repubblica che proprio sul lavoro dovrebbe essere fondata e che al lavoro dedica così poche delle sue energie.

La questione, allora, si fa incredibilmente semplice, perché non riguarda più il cosa facciamo ma - più banalmente - quello che siamo. Non tenerne conto, pensare che si possa rinviare la ripresa delle normali attività umane per un tempo non definito, rischia di cambiare irrimediabilmente l’essenza di ciascuno di noi. Ovvio che non si possa riaprire a qualsiasi costo. E perfino banale è ripetere che la vita è più importante del lavoro. Il punto è che, proprio ora che il virus ha mostrato le nostre fragilità, abbiamo più che mai bisogno di certezze. A cominciare da quelle sui tempi e sulle modalità della ripartenza.