"Sono un cantautore: punto". E Motta trasforma piazza Grande in un palcoscenico / FOTO

Il cantautore, fresco vincitore del secondo premio Tenco, anima la seconda notte sotto le stelle. Circa cinquecento spettatori, le canzoni, i giudizi graffianti

Francesco Motta

Francesco Motta

Arezzo, 7 luglio 2018 - «Nun la so’ ffà“. Vive a Roma da anni, ma Pisa e Livorno, lo strano incrocio delle sue origini, gli sono rimaste appiccicate addosso.

E Franceco Motta se le porta dietro, nella piazza Grande che lo accoglie come un protagonista. Capelli lunghi fino a coprire metà del viso. Comprese le orecchie.

“Peccato, le so muovere“. Pausa: ne fa una ad ogni passaggio. Ma non è strategia, gli viene spontaneo così.«E’ una delle poche coase che so’ ffa’». Ci sarebbe anch ela musica. Anzi c’è la musica

E’ un’intervista spettacolo, ilsecondo atto della tre giorni organizzata dall'Ascom in piazza Grande. Quelle interviste che si riempiono di parole e di qualche canzone. Ma lui sembra trincerarsi all’inizio dietro alla chitarra e soprattutto alla voce. "Mi chiamano polistrumentista ma io sono un cantautore. Punto". 

“Vivere o morire«. Eccolo il pezzo che gli ha appena meritato il secondo premio Tenco in tre anni. Le parole che gli sono valse il miglior testo. 

"Vivere o morire. Aver paura di dimenticare. Vivere o morire. Aver paura di tuffarsi, di lasciarsi andare"

Un po’ quella paura ce l’ha davvero, quando si muove sul terreno più friabile di quello "che non sa fare". Si affaccia in punta di piedi su una piazza Grande tirata a lucido. Una platea naturale unica: la terrazza fa tutt’uno con la piazza, sorta din ostrica intorno alla quale la gente si accalca.

Non ci sono le mille persone che si erano fatte avanti per il concerto: ce ne saranno la metà, poco più o poco meno. Tanti arrivano con calma, forse dopo il quarto di finale del Brasile che affolla la gente agli schermi, forse semplicemente dopo cena. Ma la serata funziona lo stesso. Le persone in terra, quelle sulle sedie. I locali affollati, i cui tavolini diventano finalente un posto in prima fila per uno spettacolo che vale la pena seguire.

E lui in mezzo. Aggira nella parte iniziale le domande, per piazzarsi alla chitarra a cantare. Chitarra e voce, pezzi in acustica. «Non mi chiedete quelli che on so’ ffà» insiste nel solito stile. Come se alle radici livornesi e pisane avesse aggiunto un pizzico di quell'indolente sfrontatezza alla Scialla tipica di Roma.

Quando finisce i ezzi che sa fare, o crede di averli finiti, si accomoda sulla sedia dell’intervistato. Personaggio un po’ alla Nanni Moretti prima linea, fa dell’autoironia un'arma priam contro se stesso  e solo dopo verso gli altri. «Mi sono specializzato nelle cose che non so’ fare. Da ragazzo c’era compito in classe: entra il prof di ginnastica per sapre chi volesse fare la gara di nuoto. Alzo la mano e dicio io. Che stile chiede? Rana, dico deciso. Mi hanno ripescato a metà vasca, stavo quasi affogando».

Un approccio che trasferisce nella vita prima ancora che  nelle canzoni. «La gente cantava e si divertiva, quindi hai cantato bene“ si avntura l’intervistatore. Pausa, beh non può mancare. «No, se cantava e si divertiva non significa che ho cantato bene».

"E a volte m’innamoro E mi nascondo per farmi ritrovare"

Sì, proprio alla Nanni Moretti, nascondersi solo per farsi ritrovare, meglio se non viene o se viene e si mette in un angolo? Però le idee le ha chiare. E sono spesso controcorrente. Si ispira alla usica italiana, non ha la passione dei generi, digerisce male perfino l’aggettivo Indie.

Ed è tra i pochi cantanti italiani dell'ultima generazione a indicare come riferimento non un gruppo alla moda ma Nada. Lei, Nada Malanima, toscana come lui

«Una cantante speciale» spiega e con la quale ha collaborato a lungo. Non dice lo stesso di nomi più gettonati. «Se non me lo citavi tu io non lo avrei mai citato» spiega senza fare il pesce nel barile.

Cita con orgoglio Guccini e Gaber. Coniuga la politica alle canzoni d’amore. Dietro i suoi testi nasconde l’impegno di chi prende posizione e insieme le svolte e i traguardi della vita personale. E quela vena di amarezza che sembra scorrere nelle sue canzoni capisci che non è pessimismo cosmico ma l’artte di spaccare il capello non in quattro ma in otto: e spacca spacca alla fine l’altra faccia della luna emerge.

Luna che è la convitata di pietra (naturalmente lunare...) della serata. Veglia su una piazza Grande orgogliosa dei suoi colori e delle sue potenzialità, palcoscenico istintivo che ha pochi eguali in Italia.

«Piaci al pubblico quindi sei sulla strada giuista». Pausa. Non sia mai. «Tanti piacciono alla gente (su richiesta fa anche nomi e cognomi) ma non per questo sono nel giusto». Il bicchiere di vino sotto la sedia, come Guccini dei mitici concerti o come Mauro Corona, ma quello dei boschi. Il timore che qualcuno lo riprenda con il celluare quando si muova su un terreno che sia appena appena meno sicuro di altri.

Snocciola i suoi pezzi, piano piano conquista lo spazio intorno. «Venite qui sotto, non lasciate i vuoti. E sedetevi, nom vi posso vedere in piedi».

Un altro pezzo, una cover, un’idea di una nuova canzone. Orgoglioso sotto sotto della sua intelligenza ma cosciente dei propri limiti: un po’ come i personaggi di "Generazione mille euro", il film di Massimo Venier. Tra i protagionisti c’era la sua Carolina Crescentini e peccato che alla fine non lo abbia raggiunto in piazza. E tutto torna. O almeno qualcosa.

«Non mi chiedete altro: non so fare altre canzoni». Doveva essere uno spettacolo di un’ora, ne sono passate due. E capisci che volendo starebbe lì altre quattro a spiegarti tutto quello che non sà fare. E magari a fartene appassionare.