
Roberto Nicastro
Arezzo, 1° novembre 2016 - Ormai si è gridato tante di quelle volte al lupo (cioè all’affare fatto) che se il lupo arriva davvero quasi non ci crede nessuno. Eppure tutto lascia pensare che il mese di novembre oggi al debutto sarà davvero quello decisivo per la vendita di Etruria e delle sorelle. Almeno per due ragioni. La prima è che, per quanto non si veda, la scadenza fissata dall’Europa c’è e dovrebbe concidere con il 30 novembre. A Bruxelles nessuno lo dice per non rendere l’operazione ancora più difficile, ma le fonti vicine al dossier lo lasciano intendere abbastanza chiaramente. E poi il 4 dicembre si vota per il Referendum Costituzionale.
Un appuntamento che per il premier Renzi è già sufficientemente problematico per aggiungerci anche i rancori e i possibili sconquassi delle Good Bank ancora in mezzo al guado o peggio alla vigilia del default. Tradotto dal politichese o comunque dal gergo dei tecnici, bisogna chiudere l’affare al più presto, anche a costo di qualche robusta spinta per convincere l’acquirente. Già, il compratore.
Ormai in pista sembra essercene rimasto uno solo e che per giunta fa lo svogliato, sia tattica o effettivo disinteresse. Parliamo naturalmente di Ubi, la maxi-popolare bergamasco-bresciana alla cui guida c’è Victor Massiah. Tutti lo spingono e tutti lo vogliono, come col Figaro di Rossini, anche perchè le alternative sono ridotte al lumicino. Bper, in procinto di affrontare finalmente l’assemblea per la trasformazione in spa, si è defilata da qualche settimana, i famosi tavoli sui quali giocava ancora a settembre il presidente delle Good Bank Roberto Nicastro sono praticamente deserti. Sì, è vero, ci sarebbero ancora gli americani dei fondi di investimento, ma anche loro paiono volgere lo sguardo altrove.
Insomma, gira che ti rigira, l’unico candidato serio resta Massiah, che l’operazione è disposta a chiuderla ma alle sue condizioni. «A patto - come dice il presidente del consiglio di sorveglianza di Ubi, Andrea Moltrasio - che non sia un salvataggio ma un affare che crea valore per la nostra banca e per i nostri azionisti». Ermetismi a parte, vuol dire che Ubi non ci pensa neppure di piegarsi al diktat della Bce di Francoforte, dove prevale ancora la linea dei falchi dell’Europa del Nord e quindi la richiesta di un maxi-aumento di capitale da 600 milioni, molti più dei 300-400 fino ai quali è disposto a spingersi Massiah.
Sarebbe un dialogo da sordi se non fosse per l’aiutino che potrebbe dar di mano, come un tempo a scuola con i somari, a concludere l’affare senza complicazioni capaci di bloccare tutto e di mandare all’aria Etruria e le sorelle. Una spintarella che potrebbe consistere in un intervento del Fondo Interbancario, sezione volontaria, che copra la distanza fra quanto impone Francoforte e quanto è disposto a metterci Ubi. I 300 milioni, appunto, che il sistema creditizio nazionale sarebbe chiamato a coprire con un ulteriore versamento pro-quota cui tutti partecipino, naturalmente in proporzione alle proprie dimensioni.
Le banche, come è naturale recalcitrano: di soldi nel dossier Good Bank ritengono di avercene messi anche troppi (almeno tre miliardi fra ricapitalizzazione, Bad Bank e il resto). Ma il governo ha pronto lo zuccherino: la possibilità di spalmare le perdite su vari esercizi di bilancio. Per ora è solo uno scenario, ma pare il più probabile. Si allontana invece l’ipotesi dello spezzatino Etruria: se compra Ubi, si tiene ben strette anche Banca Del Vecchio e le assicurazioni Bap. Semmai le venderà in un secondo momento. Ovviamente guadagnandoci sopra.
di Salvatore Mannino