La Russia, i tedeschi e lo sterminio degli ebrei nel diario di Raffaele Resta

Tra gli otto finalisti del Premio Pieve. La campagna di Russia e l'orrore della guerra raccontata da un ragazzo che amava le donne

Raffaele Resta

Raffaele Resta

Pieve Santo Stefano (Arezzo) 15 settembre 2020 -  La campagna di Russia, la più grande tragedia mai vissuta nell sua storia dall’esercito italiano, ha prodotto una letteratura sterminata, dal «Sergente nella neve» di Mario Rigoni Stern alle «Centomila gavette di ghiaccio» di Giulio Bedeschi e alla «Strada del Davai» di Nuto Revelli. Nessuno però aveva mai raccontato con la nettezza di Raffaele Resta, un umile autiere barese, 22 anni appena, le nefandezze dell’esercito nazista di cui i soldati italiani furono a volte testimoni. Come lo sterminio sistematico degli ebrei, inquadrato nella politica di annientamento della popolazione russa che fu una delle caratteristiche di quella guerra senza regole. «Da ultime informazioni - scrive il 24 giugno 1942 - risulta che nella settimana scorsa i tedeschi hanno ammazzato 1500 bambini maschi fino a sei anni perché appartenenti a razza ebraica – scopo - distruggere e sterminare la razza. Arriverà quel giorno che il sangue di questi disgraziati sarà rivendicato, e non sarà molto lontano. Tutto il mondo, se non lo sa, saprà chi sono i tedeschi». Dire che l’avventura russa di Raffaele era cominciata qualche mese prima nel segno della spensieratezza. A Trento, uno dei luoghi in cui le truppe italiane stavano radunandosi in vista della partenza per il fronte orientale. Non c’è molto da fare e i militari, specie i più giovani, hanno tempo per corteggiare le ragazze: «Ci divertiamo immensamente: ogni ragazza che passa in bicicletta gli sbarriamo la strada in modo da rallentare la velocità, poi tutto d’un colpo sgombriamo dividendoci in due file. Appena ci è vicina, ci buttiamo a terra e tutti guardiamo sotto le gonne». Uno spirito quasi goliardico che accompagna anche il lungo viaggio di avvicinamento alla Russia: amore e pulsioni erotiche invece della paura della guerra. «Vengono a trovarci - racconta Resta delle giovani tedesche incontrate alle fermate del treno - portandoci sigarette e fiori, sembrano impazzite dal piacere e fino al momento di partenza non si fa altro che scambiarci occhiate infuocate. Prima di lasciarci le dissi: Sceins fraulain - bella signorina - Offiderson sceins fraulain - è l’ultimo saluto – un bacio. Essa entrò la testa nella gabina e mi baciò più volte». Il tedesco è maccheronico ma lo stato d’animo della truppa è fin troppo chiaro. Non immaginano ancora, Raffaele e gli altri, a cosa vanno incontro. Lo scoprono, subito dopo essersi imbattuti nello sterminio degli ebrei, alla periferia di Kiev, dove i russi hanno fatto terra bruciata prima di andarsene. «Prima di entrare nella città di Kiew ci sono tre ponti fatti saltare dai russi in ritirata. Quanto più ci inoltriamo tanto più aumenta il panico, il terrore diventa insopportabile. Con grande sbalordimento e orrore, mi accorgo che sia a destra che a sinistra della strada tutti i palazzi sono distrutti, rasi al suolo, rimangono cumuli di macerie». Mancano pochi mesi a Stalingrado, la vera svolta della guerra, che l’autiere Resta vive dalla retrovie, lontano dagli orrori. Per lui contano soprattutto le ragazze russe, le «Bariscine» che danno il titolo al diario. Resta e un commilitone siciliano ne agganciano due, finiscono a consumare in una casa di fortuna, dove la sua dama gli racconta degli orrori che ha vissuto: il marito tenente pilota che non ha più visto dal primo giorno di guerra. La vita è dura, accompagnarsi con gli italiani è anche un modo per sfangare l’esistenza: «Ora essa è venuta costà per comprare del grano. Le promettiamo di aiutarla dopodiché si va a letto». La vita tutto sommato gradevole delle retrovie finisce nella ritirata tragica dopo Stalingrado: «Vedo scendere dalla strada due, tre, quattro, una colonna di macchine cariche di truppa; non dò retta, continuo il mio lavoro. Pochi minuti dopo le macchine aumentano sempre più; gli uomini sono aggrappati sui parafanghi, sulle gabine, sui predellini e fin anche fra i longaroni». Il resto è noto.