I finalisti del Premio Pieve. Italo Cipolat e la sua Africa

Emigra con la famiglia nel Congo Belga, terra di colonizzatori, miniere e natura selvaggia. Un paradiso per un bambino come lui. Vita in fattoria fianco a fianco con le popolazioni africane, l'arresto, l'indipendenza

Italo Cipolat

Italo Cipolat

Arezzo 6 settembre 2019 - Pubblichiamo le storie degli otto i diari finalisti del Premio Pieve Saverio Tutino che si terrà a Pieve Santo Stefano dal 12 al 13 settembre per la sua trentacinquesima edizione e che vedrà premiare anche il regista Pupi Avati nella giornata di domenica 15 settembre. Un affresco di memoria italiana che va dall'Ottocento a oggi.

Ecco il diario "Hadisi" autobiografia 1917-1974 di Italo Cipolat

Kambove è una città della Repubblica Democratica del Congo, nella provincia dell'Alto Katanga, un importante centro minerario per l'estrazione di rame e cobalto, terra di esolorazioni, di sfruttamenti minerari e di genocidi umani, colonia belga,. E’ qui che inizia la storia di Italo Cipolat, classe 1917, morto nel 2009 a 92 anni. Il suo racconto autobiografico “Hadisi”, dal 1917 al 1974, è uno degli otto diari finalisti del Premio Pieve. Hadisi significa “raccontare” in swahili, lingua bantu diffusa in Africa Orientale e in parte del Congo. Italo Cipolat nei suoi frammenti di memoria, ricompone la sua storia di vita tra l’amore per l’Africa più vera e selvaggia, la guerra e la scommessa di restare a lavorare in quella che considera la sua terra. Italo nasce nel 1917 in Congo, allora Congo Belga. La sua famiglia, italiana, emigra controcorrente in Africa all’inizio del 1900. Nel 1919 il padre Domenico acquisisce, negli altopiani del Katanga, oltre 5mila ettari tra savana e praterie dove crea la “Farm Esperia” con un grande allevamento di bestiame e una coltivazione di ortaggi. La famiglia di Italo è composta anche dalla madre Gesuina Frau e da quattro fratelli, tra i quali il gemello Ettore. Ci lavorano tutti in quella fattoria nel cuore dell’Africa, tra la natura violenta e selvaggia, tra strade impossibili da percorrere, tra contadini e mandriani locali. La civiltà è lontana. Ma per lui è il paradiso. “In banda entravamo nei campi di mais, facendo man bassa di pannocchie verdi che arrostivamo sulla brace del primo villaggio che incontravamo. Le donne indigene ci davano anche da mangiare. Seduti per terra con gli uomini, dopo esserci lavate le mani con un poco d’acqua versata da una ‘Lukata’, mangiavamo con buon appetito”.

A sei anni Italo va a studiare in Sud Africa e nel 1926 con tutti i fratelli va a Malta, poi in Italia, passa di collegio in collegio fino alla scuola agraria, a Roma, dai Salesiani. Un regime duro, severo, ben lontano dalla libertà della sua infanzia nella savana, i ragazzi vengono maltrattati: “ogni qual volta aveva l’occasione di poterci umiliare, sfruttando la sua autorità, lo faceva con piacere palesemente sadico” scrive riferendosi a un religioso. Nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, torna in Africa “a distanza di tanti anni tornavo nei luoghi della mia prima fanciullezza. Dopo un breve momento di familiarizzazione con l’ambiente, guidato dall’esperienza di papà, iniziammo a progettare come migliorare le diverse attività della fattoria”. Ma nel 1940 l’Italia entra in guerra al fianco della Germania e contro il Belgio. I sentimenti e le appartenenze si spaccano: “Alle quattro del mattino del 10 giugno ci svegliammo di soprassalto: erano arrivate alla Farm diverse automobili piene di gente. Venivano ad arrestarci”.

Dopo due anni di internamento e la morte del padre Italo riparte dalla sua fattoria aiutato da Luciana che sposa nel ’44 e dalla quale ha due figli. Lascia la “Farm Esperia”, diventa dipendente in uno stabilimento di mulini industriali vicino a Jadotville e poi apre un’impresa edile. Assiste alle prime ondate anticolonialiste e al cammino verso l’indipendenza che arriva nel 1960. “Presagendo un periodo critico avevo provveduto a far rientrare in Italia Luciana con i nostri figli”. Il 10 luglio anche Italo fugge nell’allora Rhodesia del Nord. “Il panico tra i bianchi era al culmine e anch’io, come gli altri, mi lasciai trascinare dalla massa”. Scoppia la guerra civile che vede intervenire anche l’Onu, ma nonostante le violenze, la famiglia Cipolat resiste e Italo riavvia l’impresa edile portandola avanti fino al 1974. Lascia la sua Africa solo per andare a morire in Italia.