Diari di Pieve. Scatolari, nel cuore dell'Africa nera come Conrad

Il racconto del giovane medico di Jesi partito per il Congo nel 1899 per andare a curare i malati. E il giornalista Gianni Minà ricorda Saverio Tutino e i suoi consigli per l'intervista esclusiva a Fidel Castro

scatolari

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AREZZO 7 settembre 2016 - Il diario-memoria di Giulio Cesare Scatolari è tra le otto scritture autobiografiche inedite giunte in finale quest’anno al Premio Pieve Saverio Tutino. La manifestazione si terrà a Pieve Santo Stefano dal 16 al 18 settembre e vivrà per il secondo anno consecutivo una giornata di anteprima a Arezzo, il 9 settembre con La Nazione come media partner. Nell del Cortile del Palazzo comunale di Arezzo dalle 17 sarà presentato il programma del Premio e lo storyteller Matteo Caccia leggerà alcuni tra i passaggi più belli tratti dai racconti dei finalisti. Seguirà alle 21,00, presso il Teatro Petrarca, lo spettacolo “Italiani Cincali” di Mario Perrotta.

IL DIARIO DI GIULIO CESARE SCATOLARI "MILLENOVECENTO AFRICA"

UN ANNO lungo un secolo quello che va dal 1899 al 1900. L’epocale passaggio dall’Ottocento al Novecento vissuto in un battello risalendo il fiume Congo, nel cuore dell’Africa nera. Là, gli stessi anni e gli stessi luoghi che Conrad racconterà in «Cuore di tenebra». Ma in «Millenovecento Africa» nel diario di Giulio Cesare Scatolari giovane medico di Jesi (Ancona) classe 1872, che a soli 23 anni decide di andare a curare i malati nel Congo Belga ingaggiato dalla milizia coloniale, c’è qualcos’altro. Una geografia dettagliata, la testimonianza del fallimento delle politiche coloniali e militari, la morte vista in faccia più volte, lo stupore di una natura affascinante e crudele. Un viaggio verso l’ignoto come quello di Conrad che nel 1890 a bordo del vaporetto Roi des Belges risalì il fiume Congo e che diventerà il romanzo più conosciuto al mondo pubblicato nel 1899 dal Blackwood’s Magazine di Edimburgo. In quello steso anno Scatolari comincia lo stesso viaggio verso il cuore dell’Africa equatoriale, alla scoperta dell’altra faccia dell’Europa imperialista e colonialista. Il giovane medico vuole imparare, fare esperienza di vita, guadagnare denaro da restituire alla famiglia che lo ha sostenuto negli gli studi. Attraversa l’Europa in treno, si imbarca a Bruxelles e naviga venti giorni fino alla baia di Banana poi risale il fiume Congo. «La vegetazione è addirittura splendida, abbondantissima, rigogliosissima, e in qualche punto si ànno dei boschi impenetrabili a causa specialmente degli alberi camminatori». MA IL FASCINO lascia presto il posto alla disillusione, Giulio Cesare capisce che il male dell’Africa non è nei nativi o nella natura selvaggia, ma nei coloni europei. A quattro mesi dalla partenza, raggiunge il luogo in cui deve prestare servizio, un villaggio dell’entroterra chiamato Lusambo. «L’ospedale si compone di due corsie; appena aperte un tremendo puzzo di cadavere si fece sentire mi fu detto che, l’ultima volta che fu messo la un malato, fu dimenticato là dentro e quando, per caso, fu aperta la porta, si trovò un cadavere in stato di putrefazione e a metà mangiato dai topi. E dire che si viene in Africa per portare la civiltà». I militari colonizzatori abusano del loro potere: «Il comandante à esposto tutto il suo piano: guerre per gl’indigeni. Si propone di marciare anche contro i capi più potenti, egli riassume la sua politica così: guerra ad oltranza». L’alcol fa il resto: «Il comandante ubriaco fradicio à cominciato col licenziare più della metà dei negri occupati alla stazione, per cui un malcontento immenso, poi à inviato un certo numero di soldati per arrestare, per un futile motivo, un capo indigeno, prevedo che se continuerà di questo passo a lasciarci governare dal vino e dai liquori noi tutti finiremo per essere trasformati in bistecche». Impressionante l’inconsapevole richiamo a Kurtz di Conrad e al personaggio che sarà di Marlon Brando nel film «Apocalipse Now» di Coppola. Ma prima di essere annientato Scatolari si salva, indebolito dalle malattie il 31 maggio 1900 si imbarca di nuovo per fare ritorno a casa. Ma non ci resterà per molto, verrà ad esercitare a Sansepolcro poi ripartirà per il Brasile. Morirà nel 1955, ma con il mondo negli occhi.

COSI' SCRIVE SCATOLARI NEL SUO DIARIO

"19 ottobre Stamattina abbiamo veduto un numero straordinario di ippopotami. Si è tirata qualche fucilata inutile a causa della distanza. Alle 15 circa abbiamo dovuto arrestarci per l’appressarsi di un grosso uragano che dopo poco è scoppiato con grande violenza. Io ero sceso a terra ed essendomi un poco allontanato per seguire le piste di un ippopotamo, ò preso tutta l’acqua addosso per cui può immaginarsi in quale stato sono tornato a bordo. Nel pomeriggio abbiamo visto branchi di 50 e più ippopotami, un numero enorme di sparvieri di cui ne furono uccisi parecchi e uno stormo di pipistrelli grossi quanto una bella gallina. Siamo rimasti senza pane e per questa sera si faceva conto di arrivare alla prossima stazione per potersi vettovagliare ma per mancanza di legna abbiamo dovuto arrestarci presso un banco di sabbia, inviando la baleniera per prendere legna pel domani mattina. 23 ottobre: ci rimettiamo in cammino alle 5 1/2 e dopo una breve sosta ci fermiamo per prender legna e passar la notte, non molto distante da un grosso villaggio indigeno. Ci ànno consigliato di non andare al villaggio perché vi é poca sicurezza trattandosi di una tribù battagliera e facilmente traditrice. Scendo ciò non ostante a terra col mio fucile e m’interno cacciando procurando così qualche cosa da aggiungere al vitto di bordo. Ad un certo punto sento un forte sibilo, di una freccia che mi passa rasente la testa, mentre un’altra mi perfora il calzone destro senza ledermi. Tiro tre o quattro colpi alla cieca impedendomi le alte erbe di vedere qualche cosa. Stimo oportuno di tornarmene guardingo a bordo"

L'INTERVENTO DEL GIORNALISTA GIANNI MINA'

Nel 1984 Saverio Tutino ha dato corpo a un'intuizione lungimirante. Quella di valorizzare, per capire i tempi e le trasformazioni del modo in cui vivevamo, l'esercizio di molte persone di tenere un diario, intimo o di tutti, ma che fosse capace di rivelare la sincerità di un Paese e la voglia di raccontare gli accadimenti comuni, quello che i media non erano più capaci di fare. Aveva fondato a Pieve Santo Stefano nella val Tiberina toscana, l'Archivio Diaristico Nazionale, che ora, dopo oltre trent'anni, prosegue quella missione e ha raccolto più di settemila scritti di persone che hanno aperto il loro cuore ("o il loro fegato", come disse una volta Saverio commentando lo sfogo bellissimo e durissimo di un emigrante). Fu in quel frangente che mi volle al suo fianco per presentare le prime edizioni del premio legato all'Archivio, che quest’anno celebra la trentaduesima edizione. Saverio mi chiese di fare le interviste pubbliche con i finalisti dei diari. Qualche anno dopo nel 1986, esattamente trent’anni fa, quando già conducevo la trasmissione televisiva Blitz l’intero pomeriggio di Rai2, sempre Saverio mi fece l'onore di aiutarmi a metter giù tutte le domande possibili che un giornalista onesto avrebbe voluto avere a disposizione il giorno che avesse potuto incontrare Fidel Castro, l’ex presidente cubano che proprio in questi giorni ha compiuto 90 anni e che all'epoca era oggetto di duemila richieste di intervista l'anno. La mia amicizia con García Marquez e Jorge Amado, presidente nel 1986 della giuria del Festival del Cinema a L'Avana, aveva infatti suggerito questa possibilità e io, per non essere inadeguato, avevo chiesto la collaborazione del più grande esperto di Rivoluzione cubana del mondo occidentale. Ci trovammo in un pomeriggio festivo nel suo studio a Trastevere e Saverio mi spinse a non risparmiare domande, anche se io ero convinto che tutto si sarebbe risolto in un'ora, il tempo di porre sette o otto quesiti, il tempo che concede normalmente un capo di Stato. Ebbe ragione Saverio, perché l'intervista filmata con Fidel Castro durò sedici ore, con una significativa parte del tempo dedicata alla sua amicizia con Ernesto Che Guevara. Un racconto che non aveva mai fatto e che non avrebbe mai più ripetuto e che segnò per sempre la mia vita di giornalista.